Lacci di Daniele Luchetti è un film sulle forze segrete, invisibili, spesso taciute e represse, che ci legano indissolubilmente gli uni agli altri. Dopo Io sono tempesta e Momenti di trascurabile felicità, il regista e sceneggiatore romano torna al cinema con un adattamento dell’omonimo romanzo di Domenico Starnone, che nel progetto è stato coinvolto in veste di co-sceneggiatore insieme allo stesso Luchetti e a Francesco Piccolo. Il film ha aperto – Fuori Concorso – Venezia 77, la 77esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica e sarà nelle sale italiane a partire dal prossimo 1 ottobre.
La storia di Lacci, disarmante nella sua semplicità, è quella di Aldo e Vanda, il cui matrimonio entra in crisi quando Aldo, mosso da un impeto di incontenibile sincerità, rivela a Vanda di averla tradita e di essersi innamorato di una donna più giovane, Linda. Del romanzo originale, Luchetti sembra interessato a cogliere non soltanto la profondità dei personaggi, ma anche quel senso di sorprendente definitezza che li contraddistingue e che spinge con estrema facilità lo spettatore ad identificarsi con loro. È infatti sui protagonisti di questa storia familiare che il regista focalizza il suo sguardo indagatore, servendosi di bellissimi primi piani atti a catturare non soltanto la complessità delle emozioni umane ma anche la comprovata bravura degli interpreti.
Se c’è una lezione che la vita può impartire è che le persone non restano unite solo quando esiste l’amore, ma anche quando quello stesso amore non esiste più. In questo senso, i “lacci” del titolo sono – metaforicamente – qualcosa che ci viene tramandato dalla nostra famiglia: un gesto apparentemente semplice (quello di allacciarsi le scarpe, che spesso ci viene insegnato durante l’infanzia dai nostri genitori) diventata figurato e si erge a rappresentazione di tutti quei legami indistruttibili, che non sempre si riescono a spiegare, che spesso possono rivelarsi dannosi e con i quali continuiamo a fare i conti per il resto della nostra vita. Legami che vorremmo spezzare ma che il più delle volte non sappiamo come sciogliere, vincolati dall’inerzia, dalla paura, dalla mancanza di carattere o di volontà.
Daniele Luchetti ci regala un racconto che si muove avanti e indietro nel tempo e, di conseguenza, nelle emozioni che hanno segnato la vita dei suoi personaggi. Il resoconto della separazione tra Aldo e Vanda e della loro successiva riconciliazione ci viene presentato come un enorme e complicato puzzle, a cui ogni volta siamo capaci di aggiungere un pezzo in più, aiutati anche dal ritmo cadenzato della storia. Aldo e Vanda, interpretati da Luigi Lo Cascio e Silvio Orlando e da Alba Rohrwacher e Laura Morante, sono due anime bonariamente infelici, mosse da rancore, vergogna, anche disonore, ma pronte fino alla fine a credere di poter ricominciare, nel tentativo folle ed estenuante di tenere fede “alla parola data”.
Di fronte a queste personalità così fragili ma anche così sfaccettate e tormentate, le città che fanno da sfondo alla vicenda – Napoli e Roma – scompaiono. A nulla servono i grandi spazi in cui i protagonisti potrebbero ipoteticamente muoversi, dal momento che a Luchetti interessano gli “interni”: che si tratti di case, appartamenti o stanze, sono quei luoghi all’apparenza così pacati e silenziosi a diventare il principale veicolo delle emozioni dei personaggi, e che a mano a mano diventeranno strabordanti contenitori di dolore, sopportazione, logorio, insoddisfazione, angoscia. Ognuno dei membri del cast è perfettamente calato nel suo ruolo, ma sono Alba Rohrwacher e Silvio Orlando (rispettivamente la versione giovane di Vanda e quella adulta di Aldo) a dimostrare maggiore estro e abilità, mentre Linda Caridi (nei panni di Linda) si conferma – dopo Ricordi? di Valerio Mieli – uno dei volti più interessanti e affascinanti dell’odierno panorama cinematografico italiano, nonostante lo scarso minutaggio a disposizione.
Servendosi di un controllo totale sulla messinscena e sui personaggi, Daniele Luchetti racconta con Lacci una storia semplice e ordinaria, mescolando sincerità e brutalità, senza mai indugiare su toni calcatamente patetici o tragici. Tuttavia, nella ricerca della completezza all’interno della frammentarietà (quest’ultima vicina tanti ai protagonisti quanto al linguaggio utilizzato dal film), l’atto conclusivo – che vede al centro i figli ormai adulti e disincantati di Aldo e Vanda, interpretati da Adriano Giannini e Giovanna Mezzogiorno – rischia di non intrecciarsi come dovrebbe a quei fili già annodati del passato e del presente, limitandosi ad esemplificare un futuro i cui danni causati dalla presenza/assenza dell’amore sono ormai irreversibili.