Dobbiamo domandarci: esiste ancora un’immagine in grado di sconvolgerci? Immersi nel flusso ininterrotto di materiale fotografico e video che si accavalla e sovrasta a vicenda sui nostri dispositivi tecnologici, siamo ancora in tempo di subire uno shock? E quindi di elaborarlo, di trovargli una causa, una ragione. Di formargli attorno un’opinione, una cornice che lo contenga in quanto specifico e non come anello di una catena. Esiste, insomma, una forma di resistenza all’ordinarietà della barbarie?
È il tema cardine de La zona d’interesse (in originale, The Zone of Interest), film premiato con il Grand Prix al Festival di Cannes 2023, passato in anteprima italiana alla 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma e in uscita al cinema il 22 febbraio. Lo dirige Jonathan Glazer, al quarto film in poco più di vent’anni, e lo scrive anche a partire dal romanzo omonimo di Martin Amis. Al centro ci sono Rudolf Höss (Christian Friedel), comandante realmente esistito di Auschwitz durante gli anni della Germania nazista, e sua moglie Hedwig (Sandra Hüller). Entrambi vivono con i loro bambini in una villetta familiare adiacente al cancello d’ingresso del campo di sterminio. Hanno ampie stanze, un’ampia serra, un ampio giardino in cui Hedwig lavora con zelo per renderlo il più accogliente e rigoglioso possibile.
È il loro piccolo eden. E qui sta l’assunto da cui il regista parte e che si pone a spina dorsale della sua opera. Di una tragedia come quella del genocidio sistemico operato a danno del popolo ebraico, c’è ancora bisogno di mostrare qualcosa? O meglio: in un’epoca in cui l’immagine non riesce più a permeare in maniera significativa sotto l’epidermide di un inconscio già saturo e anestetizzato, è davvero la rappresentazione visiva del trauma ad essere la forma di riflessione più adeguata? Allora Glazer fa una cosa in apparenza semplice, ma di una forza argomentativa sconcertante.
Quell’atrocità al di là del filo spinato…
All’interno delle mura di Auschwitz non ci fa entrare mai, lasciandoci per un’ora e quaranta stipati al fianco di Höss e dei suoi familiari. Al fianco delle loro discussioni a tavola, dei loro picnic, dei loro momenti di riposo. Al fianco delle loro ambizioni e della loro struttura morale. In sostanza, al fianco del loro ordinario. Ma si rivela impossibile astrarsi del tutto da ciò che si sta consumando al di là di quelle grigie mura che costeggiano l’abitazione.
Non tanto perché sia un tema che emerga spesso nel confronto tra i coniugi o con gli ospiti a cui in questa cosa capita di fare visita. Quanto perché il regista lavora consapevolmente sul rimuovere la messa in scena del vero nucleo discorsivo attorno a cui vortica l’esistenza degli Höss, ovvero quell’atrocità al di là del filo spinato che però non è affatto rimuovibile da un immaginario collettivo che sa bene come e cosa visualizzare. Ecco, il regista lavora sull’evocazione del fuoricampo cinematografico e anche storico, cioè su tutto ciò che è esterno all’inquadratura e ai bordi dello schermo, su tutto quello che è al di là del visibile. Glazer riconosce in questa tecnica l’unica forma di rappresentazione valida al cospetto dell’abitudine. Perché dall’abitudine di fronte alla quale siamo posti costringe in realtà ad uscire in continuazione.
La zona d’interesse estrae dalla sincronia con questa assurda quiete (che è davvero emblema della banalità del male), avvalendosi di tante e piccole tracce piazzate soprattutto nel riferimento sonoro – le grida, i pianti, gli spari. Il film è insomma pensato e impiantato sopra un meccanismo di risonanza posto in dialogo diretto con la sensibilità personale dello spettatore. Ragiona sul venire meno di quella che in qualche modo è comunque la rassicurazione a cui pone di fronte un’immagine; perché quando l’immagine c’è, per quanto ripugnante, è quella. Si può accettare o rifiutare e passare alla prossima.
Una trattazione lucida e agghiacciante del tormento
Ma se l’immagine è negata e solo suggerita in un contesto che la prevede come centrale, ecco che si instaura un regime che ne stimola la formazione – e quindi il pensiero traumatico che la contiene – nella testa e negli occhi dello spettatore. In altre parole: con questo processo si esce dalla routine, osservata anche in uno slancio al presente verso il quale La zona d’interesse – candidato a cinque premi Oscar – si proietta negli istanti finali.
L’opera di Glazer appare allora come ancor di più fondamentale se la si pensa in relazione ai nuovi dolori ultra-documentati del nostro contemporaneo – come il rinfuocarsi del conflitto israelo-palestinese, in scia ad un anno e mezzo di bombardamento mediatico sulla guerra tra Russia ed Ucraina. Una trattazione lucida e agghiacciante sullo stato del rapporto tra noi e la fruizione bulimica che facciamo, o vogliamo fare, del tormento. Un film destinato a restare come pietra angolare su cui convergono il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro.