Vedendo La persona peggiore del mondo, torna in mente, forse per pigrizia, forse per un attacco di stupidera, uno dei tanti “civili” (si fa per dire) interventi di Vittorio Sgarbi sentendo il quale Vivienne Westwood, anima vestimentaria del New Romantic inglese, avrebbe definito i giovani d’oggi «galleggianti come str..zi», privi di idee e ognuno perso nella propria droga. Delirante? Superficiale? Ebbene, ciò che sussurra il quinto lungometraggio di Joachim Trier, classe ’74, non è, in fondo, così diverso: invece dell’ecstasy, abbiamo qui i più “raffinati” funghetti allucinogeni irlandesi i cui effetti sono gli stessi di Shrooms (2007) ma con maggiori cascami freudiani di modo che il pudibondo spettatore da sala d’essai si rassicuri di stare guardando un “film d’autore” e non uno scherzo semi-horror…
Tutto il resto (la nota crisi del “quarto di vita”, padri-orchi, screzi di coppia, cunnilingus “d’addio”, rimorsi, rapidi accenni al movimento “Me too”, il provvidenziale tumore che porta a un maggior senso di responsabilità) è noia. Spiace molto, non soltanto perché, rispetto ad altri lavori del cineasta norvegese quali i promettenti Louder than bombs (2015) e Thelma (2017) – non dei capolavori, comunque – quello in esame si trova diverse spanne più sotto ma soprattutto perché, adeguatamente rifinito e depurato da paccottiglia e luoghi comuni, Verdens verste menneske (è il titolo originale) poteva significare per il nuovo filone “dramedy” europeo del 2000 quello che St. Elmo’s Fire (’85) di Joel Schumacher significò nel corrispettivo americano dell’epoca: il disincanto con cui si osserva la “tarda gioventù” appare infatti, a più di trent’anni di distanza, lo stesso, con l’aggravante (e qui risiede l’interesse per il fruitore odierno) di un conclamato trionfo, nei costumi come nei rapporti umani, dell’Irreale sul Reale, un’ulteriore mercificazione del Tempo e impotenza nell’agire.
La slavata Julie di Renate Reinsve – aspirante dottoressa che non ha un’idea ben chiara su come gestire gli appelli d’esame, espertissima nell’imbucarsi ai festini, patita dell’alta sartoria, indisponente ed egoista in un modo sfacciatamente contagioso (ma più pura di quanto lei non ami credersi) – è un personaggio riuscito, di certo una delle tre cose migliori del film di Trier. La seconda è Aksel (Anders Danielsen Lie), ex convivente della nostra antieroina, insopportabilmente paternalista nonché riottoso autore del fumetto “Gaupe” (una lince beatnik che si massacra di sesso, impreca e scoreggia, tramutata poi dal cinema in un cartone “all’acqua di rose”): la sua confessione sull’irriconoscibilità del mondo così come lo aveva sempre visto («Non mi ritrovo più in nulla e in nessuno: collezionare libri, vhs, ritrovare gli stessi negozi nello stesso posto, sentire la cultura attraverso gli oggetti… non potrei immaginare una vita diversa da questa») è quanto di più sincero, nel suo doloroso infantilismo, si sia ascoltato ultimamente sulla generazione degli anni a cavallo fra Ottanta e Novanta, sulla sua condizione di inadattabilità e “sospensione”, di attesa verso qualcosa che tarda ad arrivare (o non arriverà mai) mentre la sabbia continua a scorrere nella clessidra e si finisce per accettare che “a ogni giorno basta il suo affanno”. La terza è ovviamente l’immaginaria “paralisi” di Oslo, magica sequenza che omaggia e fonde insieme Parigi che dorme (‘25) di René Clair con l’episodio “Un cronometro particolare” (10/’63) della serie Ai confini della realtà.
Nondimeno, e ribadiamo, l’operazione nel complesso non sa evitare il tedio, la tendenza all’autoassoluzione, al piacere vagamente “sadico” nell’inscenare il fallimento degli individui e, non ultimo per rilevanza, il senso profondo e scanzonato del titolo (riferito all’Artista, che per essere davvero tale non può permettersi il lusso dell’amore o del “coinvolgimento” nel mondo ma deve forse restarne unicamente “spettatore”: Julie diverrà fotografa di scena, spettatrice finalmente lucida ed “esterna” alla sua vita come alla vita in sé stessa, ma pur sempre, ahimè, “un gradino più basso” del regista o del direttore della fotografia di turno) rimane sostanzialmente inespresso.
Per chi si accontenta, insieme ai tre pregi su elencati, c’è qualche risata a denti stretti, l’accurata fotografia di Kasper Tuxen e i trucchi ottici della premiata ditta Storyline Studios. Per un confronto, segnaliamo invece il visionario Jeux d’enfants (2003) di Yann Samuell.