“C’hanno imbrogliati, divisi e domati / donandoci socialità / inquinante, inquinata… Amo restarmene qui / solo fra i soffi e i sibili / oltre la meschinità. / Qui c’è qualcosa di più / che posso pretendere da me… Vento, avvolgimi ancora. / Vedo laggiù la città, / i miei pensieri che arrancano, / i guai dell’umanità…”. In queste strofe della canzone La fuga dei Marlene Kuntz si racchiude, mistero o coincidenza, il senso ultimo del viaggio, dello smarrimento esistenziale e al contempo dei lampi d’estasi che, improvvisi, solcano La pantera delle nevi, dal 20 ottobre in sala con Wanted Cinema.
Premessa. Vi è una ristretta eppure forte tradizione di film-documentari la quale, ad informazioni divulgative e prettamente scientifiche, predilige l’intuizione spirituale, la disperata saggezza e le leggende che comunità rurali o preindustriali custodiscono e tramandano su boschi, creature: abbandonandosi totalmente ad esse, apparentemente senza alcun “laico” distacco antropologico, le immagini catturate da queste opere subiscono una trasfigurazione ai limiti del metafisico, lasciando trapelare (e risvegliando, dunque, nello spettatore) inattese reminiscenze e una lacerante nostalgia dell’Alba del Mondo quando i primi uomini, contemplando quanto stava loro di fronte, avvertivano crescere in sé uno stupore, un senso di soggezione ambedue senza misura.
A fianco di quella piccola gemma del cinema ungherese che fu Dal mughetto in fiore alla caduta delle foglie (1952-‘53) di István Homoki-Nagy, dei mediometraggi giovanili del lituano Bartas (es. Tofolaria), o al più recente, ahimè inedito in Italia, trittico di “ballate naturali” – Storia di una foresta (“Metsän tarina”; 2012), Storia di un lago (“Järven tarina”; 2016), Storia di Giganti Addormentati (“Tunturin tarina”; 2020-‘21) – ideato dal finnico Marko Röhr si unisce così il lavoro (La panthère des neiges in originale, The Velvet Queen in inglese) della franco-svizzera Marie Amiguet e Vincent Munier, quest’ultimo fra i più sensibili interpreti della fotografia naturalistica contemporanea.
Un sapiente crescendo di tensione caratterizza il cammino, lungo varie settimane (correva l’anno 2018), di Munier e del romanziere Sylvain Tesson (che cristallizzò, poi, l’esperienza in un volume edito da Sellerio) negli scenari tibetani. Scettica e insieme fiduciosa di “catturare” con i propri occhi, il fido carboncino e l’obiettivo della fotocamera il maestoso, schivo felino del titolo (il cui nome scientifico è Panthera uncia), la coppia di protagonisti riesce per un’ora e mezza a farci sentire le proprie attese, la trepidazione e i piccoli frustranti insuccessi come qualcosa di più del prezzo da pagare durante una spedizione scientifica. La silenziosa, spasmodica ricerca della bianca pantera assume infatti, di episodio in episodio, la valenza di un personalissimo tentativo d’incontro col Divino, non sempre controllato nell’impeto con cui verbalmente si esprime ma tali cascami “predicatori” passano in secondo piano rispetto a una sincerità a tratti davvero disarmante. “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra” recita il Vecchio Testamento e come sussurra lo stesso Tesson «vi sono cose che, forse, non sono fatte per essere guardate da occhio umano».
Un documentario che predilige l’intuizione spirituale
L’umanità occidentale ha quindi accettato di praticare l’antico comandamento per non illudersi rovinosamente “che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra o che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione” (Atti 17, 29) tuttavia il desiderio che la sfera ultraterrena le si possa ancora manifestare in forma animale, una forma che susciti al suo contatto sensazioni sconfinate, mostruose eppure inesplicabilmente benigne, non è stato eradicato: permane invece nella parte più nascosta e quindi più alta del suo animo. Fuggire. Fuggire da tutto. Dai ruoli imposti, dalle ipocrisie, dalla «meccanica epilessia della città». Fuggire, se possibile, da noi stessi, diventando “invisibili” (il mimetismo è un motivo ricorrente nella narrazione).
Fuggire, sì… ma pure ritornare. Ritornare fanciulli, all’Eden Primitivo («La Preistoria piange nei pianori tibetani e ogni sua lacrima è uno yak»), a quel primo linguaggio che fu e rimane la lettura delle orme sul terreno. Interrogativi teoretici assai vasti, complessi che l’ambiziosissimo film-documentario di Amiguet e Munier, musicato da un ispirato Nick Cave, traduce in immagini di rara accuratezza che, fortunatamente, non occhieggiano (quasi) mai all’antropomorfismo o al calligrafismo da servizio del National Geographic.
Aurore e foschie, caprini disposti sui crinali come note sul pentagramma, gatti delle steppe (Otocolobus manul), piccoli roditori, lepri del deserto (Lepus tibetanus), rapaci, orsi neri (Ursus thibetanus) e volpi delle sabbie (Vulpes ferrilata)… ciascun “fenomeno” si fa “totem”, entità protettrice e ugualmente inconsapevole incoraggiatore di una segreta ossessione, quella di Munier e della parte di pubblico segnata dal medesimo malcontento: riacquisire, cioè, perdute facoltà sciamaniche che aiutino a comprendere e a “piegarsi” al fatto che noi tutti siamo intimamente legati ad ogni più piccolo sussulto della vita.
«Su tutti i volti di tutti gli orsi ripresi […] non ho mai visto affinità, comprensione o pietà. Vedo solo la travolgente indifferenza della Natura» affermava Werner Herzog in Grizzly man. Senza afflizione, anzi con pacatezza, La pantera delle nevi 17 anni dopo lo ribadisce. E proprio quell’indifferenza costituisce il fascino, l’intima ragione d’essere di un microcosmo il quale, se non si rivela, lasciandosi guardare ma mai penetrare davvero, è un miracolo che può infondere solo gioia.