Una città sotto assedio, minacciata da una malattia invisibile e letale; una serie di personaggi le cui esistenze si incrociano sullo sfondo della tragedia, descrivendo traiettorie emotive complesse e spiazzanti, sospese tra realtà e immaginario letterario. Con queste premesse Francesco Patierno (Naples ’44, Diva!, Camorra) sembra approcciarsi all’adattamento del romanzo di Albert Camus, “La peste”, con attenzione e curiosità, plasmando il microcosmo creato dallo scrittore francese fino ad adattarlo – con una certa facilità – alle idiosincrasie pericolose dei nostri tempi, travolti in modo inedito da un’emergenza sanitaria mai vista negli ultimi anni e da una richiesta spiazzante, quella di restare nelle proprie case per proteggere e proteggersi. La cura prende quindi il posto de La peste nel titolo, spostando – sul piano semantico – il focus dell’attenzione dal contagio alla soluzione, aprendosi ad un’inedita nota di speranza.
Presentato in anteprima durante l’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, il film con Francesco di Leva, Alessandro Preziosi, Francesco Mandelli e Cristina Donadio (già volto televisivo di Gomorra), è ambientato a Napoli in pieno lockdown, quando da Corso Umberto al Rione Sanità, fino alla stazione di Mergellina, passando per l’Hotel Oriente e la Prefettura, ormai la città sembrava una vasta distesa desertica, fatta di angoli e strade vuote. In questa realtà spettrale prendono vita le paure e i conflitti causati dal disorientamento dovuto alla pandemia; e proprio in questo clima rarefatto e sospeso si muove una troupe cinematografica che decide di girare in città un film tratto dal romanzo “La peste” di Albert Camus. Le vite degli attori si alternano così a quelle dei loro personaggi in una narrazione che, lentamente, unirà le due dimensioni fino a diventare la vera e propria messa in scena dell’opera.
“La peste” che si diffonde, silenziosa e letale, a Orano (nell’Algeria francese) lascia il posto a “La cura”, la speranza di un rimedio di cui il titolo si fa portavoce; Patierno costruisce il racconto filmico intrecciando diversi piani narrativi, giocando con il concetto stesso di mockumentary e con l’ingombrante eredità letteraria, calandola alla perfezione nella contemporaneità partenopea di una Napoli vuota, città fantasma abitata da spettri durante il lockdown. Spettri, appunto, e anime inquiete, erranti, che affrontano le proprie ombre nel tentativo di trovare un rimedio definitivo ai mali del mondo: una cura che si concretizza nell’amore, nella capacità umana di resistere alle avversità e di farlo solo in un contesto collettivo, stretti nell’abbraccio che trionfa nel murales che fa da sfondo all’ultima inquadratura del film.
Una narrazione complessa, suggestiva e affascinante
Patierno conosce bene la macchina-cinema, i suoi meccanismi e gli stratagemmi narrativi da adottare per ottenere il massimo della resa, anche quando la sfida non è delle più semplici; questo perché La cura non è solo un mero – e libero – adattamento di Camus, ma un saggio di meta-cinema che (meta)riflette sull’occhio meccanico e crea una corrispondenza tra finzione e realtà, passato e presente. Un’operazione difficile da seguire sullo schermo, con lo spettatore che è chiamato a non distrarsi, a non smarrire il filo d’Arianna di una (non) storia corale e complessa. Uno sforzo non indifferente, soprattutto se prodotto in un’epoca come la nostra nella quale la soglia dell’attenzione è spesso fin troppo bassa, ci si accontenta di storytelling didascalici e ridondanti smarriti nel labirinto di un cinema popolato da sequel, prequel, reboot e remake incastrati in un iper-loop infinito.
La cura richiede molto in termini di attenzione, ma in cambio sa restituire uno spaccato pulsante di un’umanità alla deriva che lotta in nome della resilienza, che non si arrende alle avversità e cerca di resistere, di opporsi ad un destino ignoto che sembra quasi inevitabile e pronto a punirli. Come una piaga biblica, la pestilenza di Camus si trasforma nello sconosciuto virus Sars-Covid: Francesco di Leva è quindi un medico intransigente che rinuncia anche ai propri affetti pur di salvare delle vite; Cristina Donadio è una misteriosa “madrina” che si muove nel sottobosco criminale convinta dei propri idoli e delle idee alle quali si aggrappa; Alessandro Preziosi il misterioso e malinconico proprietario di un albergo, mentre Francesco Mandelli è un attore dilaniato da dubbi e sensi di colpa, pronto a scappare per non affrontare l’angoscia stessa nei confronti dell’ignota oscurità. Personaggi che si muovono sulla scena, portando in vita le parole e i caratteri scritti da Camus, pronti a trasformarsi in frammenti di riflesso di ognuno di noi, portatori sani delle contraddizioni e delle fragilità che animano la specie umana.
Muovendosi in quello spazio “bianco” tra il finto-documentario su una troupe cinematografica (ai tempi del lockdown) e l’adattamento letterario, Francesco Patierno attraverso La cura cerca di creare una narrazione complessa e a specchio, suggestiva e affascinante, per provare a raccontare l’epidemia da Covid-19 in modo diverso, di sicuro più letterario e più colto della semplice presa diretta sulla cronaca del reale. Il risultato, anche se frammentario e a tratti ostico da comprendere (soprattutto per via di uno spazio-tempo spezzettato), si delinea come un esperimento d’alta cinematografia sia sul piano tecnico che su quello narrativo, complice il lavoro compiuto sulla trasposizione dalle pagine del romanzo di Albert Camus alla Napoli contemporanea.