martedì, Novembre 28, 2023
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La caccia, recensione del film diretto da Marco Bocci

La recensione de La caccia, il nuovo film diretto da Marco Bocci con Laura Chiatti, Filippo Nigro, Paolo Pierobon e Pietro Sermonti. Dall'11 maggio al cinema.

L’arte ci ha regalato numerose immagini metaforiche per parlare della vita e delle sue complesse criticità: allegoriche partite a poker (ma anche a dadi, scacchi o a dama), corse ininterrotte per garantire la propria sopravvivenza, aragoste in difficoltà con la crescita eccessiva del proprio carapace… ma quasi mai l’esistenza è stata intesa come una caccia grossa crudele e spietata, nonostante il famoso adagio latino – celebrato poi dal filosofo inglese Thomas Hobbes – “homo homini lupus”, che ben rende l’idea della pericolosità intrinseca dell’animale più crudele sulla faccia della terra: l’essere umano stesso.

Ad arricchire con una nuova tessera il già ricco mosaico costruito dalle arti ci pensa quindi Marco Bocci, attore ma soprattutto brillante regista e autore (ha, infatti, scritto il romanzo A Tor Bella Monaca non piove mai, dal quale ha ricavato il suo primo film omonimo), che torna dietro la machina da presa con La caccia, un film atipico che struttura la propria narrazione intorno a metafore, allegorie, correlativi oggetti e rimandi fino a creare un’affascinante storia di ordinaria follia familiare, tra rapporti conflittuali, riflessioni macroscopiche sull’esistenza e un linguaggio insolito che strizza l’occhio tanto ai generi quanto a scelte estetiche ben definite.

Il film, presentato al Riviera International Film Festival, vede protagonisti Laura Chiatti, Filippo Nigro, Pietro Sermonti, Paolo Pierobon, Peppino Mazzotta e lo stesso Bocci (in un piccolo ruolo), è pronto a debuttare nelle sale dall’11 maggio con la sua storia incentrata su Silvia, Luca, Mattia e Giorgio, quattro fratelli molto diversi tra loro: Luca è energico, vende macchine e ha in mente di espandere la propria attività; Silvia ha combattuto a lungo contro la tossicodipendenza ed è ora pulita da mille giorni; Mattia è un pittore, all’apparenza trasandato e non curante dell’opinione altrui; Giorgio ha invece un’aria seria e affidabile, un lavoro stabile e una famiglia esigente. Dopo svariati anni di lontananza, i quattro si riuniscono per l’improvvisa morte del padre, proprio in quella villa dove hanno trascorso l’infanzia e che, con loro sorpresa, rimane la sola eredità lasciata dal genitore. Decidono così di vendere la casa di famiglia, che ancora oggi nasconde una terribile verità. Poiché però il ricavato è insufficiente a sanare i rispettivi problemi economici, Luca propone una soluzione estrema, una soluzione degna di suo padre.

La caccia è un film sorprendente, che sfrutta la natura insolita ed inedita della propria narrazione per affascinare lo spettatore, risucchiandolo lentamente in un maelstrom oscuro e limaccioso dal quale uscire diventa sempre più difficile, se non impossibile. Il taglio cinico, disilluso e oscuro della narrazione – sia scritta che per immagini – è sancito già dalla scelta specifica di affidare la narrazione ad una voce esterna femminile intenta a leggere la fiaba de I quattro fratelli ingegnosi dei fratelli Grimm: il mondo di fantasia sospeso delle fiabe del nord-est dell’Europa e di quelle mitteleuropee custodisce, da sempre, un cuore dark molto complesso che popola i microcosmi narrati di luci e ombre, chiaroscuri ambigui che dipingono le vicende narrate senza rinunciare ad una ferocia sottile, una crudele vena di nudo realismo che squarcia il velo fiabesco dell’illusione. Con un approccio simile Bocci si ispira ad un’estetica cara alla settima arte sempre del nord Europa per delineare i contorni di una storia cupa immersa in un mondo ancor più oscuro, dove la speranza è un’utopia complessa e invisibile da perseguire, figuriamoci addirittura da trovare.

I quattro fratelli protagonisti – Silvia, Luca, Mattia e Giorgio – sono incastrati in esistenze tristi e insoddisfacenti perché vittime (sacrificali) dei traumi vissuti e delle colpe dei padri, nello specifico di un padre-padrone eccentrico appassionato di caccia che ha cresciuto i figli con determinate regole, condizionando il futuro e le loro scelte: il libero arbitrio sembra sospeso per i quattro e l’unica speranza di redenzione – nonché l’unica via d’uscita plausibile – sembra passare attraverso un’ultima battuta di caccia senza esclusione di colpi, un gioco al massacro feroce e spietato nel quale manifestare, liberamente, la propria natura ferina e inconscia, impulsi e desideri oscuri mediati altrimenti dalla razionalità dell’Ego (l’Io freudiano) e da una società disinteressata.

Il passato contamina il presente con la propria oscurità

In un primo momento, quindi, La caccia avvolge il pubblico con i suoi toni drammatici, costruendo l’impianto di un solido family drama su un nucleo disfunzionale scosso, dalle fondamenta, da una perdita inaspettata e deflagrante che permette al passato di riemergere con prepotenza fino a “contaminare” il presente con la propria, ambigua, oscurità; il focus della narrazione è la ricostruzione, il collage di una memoria collettiva decostruita che trova, proprio nel ricordo, la chiave di lettura (ed interpretazione) di un presente senza via di uscita.

Tutti e quattro i personaggi sperimentano il dramma dell’uomo borghese qualunque, ingabbiato – come un animale in cattività – in esistenze scadenti e deludenti, alla ricerca di una “svolta” inaspettata che possa cambiare il corso del proprio destino; una svolta ovviamente materiale, sottolineando la visione nichilista sottesa alla creazione dell’universo immortalato dall’occhio meccanico della macchina da presa di Bocci. Ma è con il progredire della narrazione che La caccia, attraverso determinate scelte stilistiche e un linguaggio specifico – quanto personalissimo – inizia a decostruire anche la percezione dello spettatore stesso, spiazzandola e mettendola alla prova: la verità si annida nel ricordo, oppure il ricordo è costruito su una menzogna? Qual è la verità al centro della più grande delle bugie, che ha finito per condizionare la vita di ben quattro fratelli?

Domande che trovano lentamente le proprie risposte con l’avanzare della storia, consapevole di un incedere lento che lascia trasparire, da numerose crepe, una violenza trattenuta ma pronta ad esplodere, lontana dagli eccessi tipici del genere exploitation ma più vicina al gusto grottesco di un certo cinema e di un determinato stile letterario. Perché se la fonte d’ispirazione soffia dal nord e dalla sua industria audiovisiva, è però all’Italia degli anni ‘90 che sembra più vicino La caccia, alla “crudeltà” della letteratura cannibale che ha reso celebri i vari Ammaniti o Pinketts, ma soprattutto alle derive “pulp” – e circoscritte – del cinema di quegli stessi anni, incarnato alla perfezione da L’ultimo capodanno di Marco Risi: un’arte grottesca che non aveva paura di approfondire l’oscurità celata nell’animo umano, curando la forma per sottolineare, ancora una volta, quanto davvero l’uomo sia l’animale più crudele sulla terra, perché capace di infliggere dolore solo per il gusto di farlo.

Una frase di Mark Twain parafrasata che, in parte, sembra riassumere alla perfezione le molteplici tematiche sollevate da La caccia e raccontate attraverso uno stile personale, evocativo, che guarda alle strutture psicanalitiche freudiane, alle manifestazioni dei perturbanti e alla narrazione onirica per ricostruire un passato frammentato, mettendo in scena caratteri e ombre di un gruppo di protagonisti che incarnano una parte dell’umanità, un piccolo spaccato di un acquario, decisamente più grande, nel quale tutti galleggiamo. E le immagini che si susseguono sullo schermo, evocate da Bocci, hanno un guizzo estetico brillante e atipico, che riconferma ancora una volta la capacità (sempre più rara) da parte del regista di narrare una storia soprattutto attraverso delle immagini che finiscono per valere più di mille parole.

Guarda il trailer ufficiale de La caccia

GIUDIZIO COMPLESSIVO

La caccia è un film sorprendente, che sfrutta la natura insolita ed inedita della propria narrazione per affascinare lo spettatore, risucchiandolo lentamente in un maelstrom oscuro e limaccioso dal quale uscire diventa sempre più difficile, se non impossibile. Marco Bocci si ispira ad un’estetica cara alla settima arte sempre del nord Europa per delineare i contorni di una storia cupa immersa in un mondo ancor più oscuro, dove la speranza è un’utopia complessa e invisibile da perseguire, figuriamoci addirittura da trovare.
Ludovica Ottaviani
Ludovica Ottaviani
Imbrattatrice di sudate carte a tempo perso, irrimediabilmente innamorata della settima arte da sempre | Film del cuore: Lo Chiamavano Jeeg Robot | Il più grande regista: Quentin Tarantino | Attore preferito: Gary Oldman | La citazione più bella: "Le parole più belle al mondo non sono Ti Amo, ma È Benigno." (Il Dormiglione)

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La caccia è un film sorprendente, che sfrutta la natura insolita ed inedita della propria narrazione per affascinare lo spettatore, risucchiandolo lentamente in un maelstrom oscuro e limaccioso dal quale uscire diventa sempre più difficile, se non impossibile. Marco Bocci si ispira ad un’estetica cara alla settima arte sempre del nord Europa per delineare i contorni di una storia cupa immersa in un mondo ancor più oscuro, dove la speranza è un’utopia complessa e invisibile da perseguire, figuriamoci addirittura da trovare.La caccia, recensione del film diretto da Marco Bocci