Quando nel 2014 uscì in sala John Wick, interpretato da Keanu Reeves, diretto dalla controfigura dell’attore nella trilogia di Matrix, Chad Stahelski (al suo esordio alla regia) e scritto dallo sconosciuto Derek Kolstad, sarebbe stato difficile prevedere la successiva nascita di un franchise di successo che dagli 86 milioni di dollari di incasso del primo capitolo sarebbe arrivato ai 327 del terzo.
Il segreto? Sicuramente hanno giocato un ruolo importante la capacità che Kolstad ha avuto nel creare un universo ampio, coerente e interessante (che avrà presto un prequel, la serie tv The Continental, in uscita quest’anno, e uno spin-off, Ballerina, attualmente in post-produzione) e il vuoto lasciato dalla saga di Matrix di cui John Wick è, idealmente ma anche concretamente, uno dei più interessanti eredi.
Nel corso di sei anni e tre film Stahelski e Kolstad sono riusciti a mantenere una coerenza narrativa e cinematografica encomiabile, rendendo un piccolo cult in successo mondiale. John Wick 4 prova ad alzare ulteriormente l’asticella dell’intrattenimento (e non è uno slogan pubblicitario, provare per credere): ancora più azione, ancora più combattimenti, ancora più location, ancora più violenza e lunghezza (ben 169 minuti contro i 101 del primo film e i 131 del terzo).
Scommessa vinta? In parte. Il difetto maggiore di questo film consiste proprio nella sua durata, che rende in alcuni momenti sparatorie e combattimenti a stento sopportabili, anche per un appassionato di cinema action. È esemplificativa l’interminabile sequenza girata sotto l’Arco di Trionfo, che aveva il potenziale di diventare una delle più iconiche dell’intera saga ma, nonostante la sua spettacolarità, finisce per diventare straniante, con Keanu Reeves che va avanti e indietro per la strada continuando a uccidere chiunque e rifiutando, incomprensibilmente, una fuga strategica. Di questi momenti ce ne sono svariati nel film e alla fine delle quasi tre ore si corre il rischio di arrivare tramortiti.
Da vedere rigorosamente al cinema
A questo va ad aggiungersi una carenza sul piano della scrittura: John Wick non ha mai avuto la pretesa di essere un personaggio shakespeariano ma, arrivati al quarto film, sarebbe stata auspicabile una seppur minima evoluzione in termini di motivazione, spessore, background. Invece il protagonista non solo non va avanti ma torna indietro, imprigionato nel loop di una scrittura che lo sfrutta come mero propellente per un interminabile susseguirsi di scene d’azione.
La sospensione dell’incredulità è obbligatoria in film come questo ma alla decima caduta dal terzo piano, centesima sparatoria e milionesima scazzottata, giacca in kelvar o meno, si fa fatica a trovare tracce di realismo sul volto (e corpo) impassibile di Keanu Reeves. La domanda che a un certo punto pone il riuscito villain del film, il marchese Vincent de Gramont (un convincente Bill Skarsgård), diventa così quella dello spettatore: “Perché John Wick continua a opporsi alla Gran Tavola se l’unica cosa che sa fare è combattere? Esiste un John Wick al di là dell’assassino John Wick?”. Per gli sceneggiatori di questo quarto capitolo (Shay Hatten e Michael Finch, che hanno preso il posto di Derek Kolstad), evidentemente no.
Liquidate le note dolenti, si può finalmente parlare di quelli che sono i pregi del film. Primo fra tutti quello di essere, senza timore di smentita, quanto di meglio possa offrire oggi la cinematografia occidentale in termini di coreografie di scene d’azione. Ogni singolo combattimento è uno spettacolo per gli occhi, amplificato, arricchito e ravvivato da scenografie eccezionali che fanno largo uso di vetro e neon, una fotografia perfetta (a firma Dan Laustsen, che con Guillermo del Toro ha realizzato La forma dell’acqua – The Shape of Water e La fiera delle illusioni – Nightmare Alley) e una regia attentissima a valorizzare il piacere della visione e i movimenti degli attori/stunt.
John Wick 4 è puro intrattenimento che sfodera una quantità di location impressionante (Parigi, Tokyo, Berlino, New York, la Valle della Luna in Giordania) ed ha almeno due momenti di grandissimo appeal. Il primo è quello ambientato al Kraftwerk Berlin, introdotto da una partita a poker e culminato in una lotta sotto l’acqua. Il secondo è quello che anticipa il finale, a Parigi; dopo tante battute (molte delle quali scambiate con Laurence “Morpheus” Fishburne) e vari riferimenti sparsi in tutti i film, si tratta forse della citazione a Matrix più bella e riuscita: una sparatoria in ambienti disseminati di specchi e dal fascino decadente che rimandano all’edificio diroccato del film del 1999, ripresa attraverso una serie di piccoli piani sequenza dall’alto, con John Wick che si muove tra le stanze armato di un lanciagranate esplosivo a corta distanza. Divertimento assicurato e una grande prova di stile da parte di Stahelski.
A quanto detto finora, si aggiungano i bassi pesanti della musica di Tyler Bates e Joel J. Richard, un cast variegato e credibile, un plot che, pur nella sua essenzialità, regala almeno un paio di colpi di scena, e un finale riuscito e coerente con la saga (attenzione: c’è anche una scena alla fine dei titoli di coda). Finale che in extremis sembra voler compensare lo spettatore di tutte le stragi cui ha assistito fino a quel momento, regalando e regalandosi un guizzo di buoni sentimenti.
Con questo film sembra si siano temporaneamente concluse le vicissitudini di John Wick, appena in tempo (e forse già un po’ in ritardo) per evitare di trasformare anche questo personaggio nell’ombra di se stesso, una macchina da soldi i cui connotati vanno prosciugandosi sotto il peso di un turbinio di prequel, sequel, spin-off, reboot, remake. Per ora, per fortuna, il nostro eroe si congeda, con stile. Tornerà? Come ha dichiarato con intelligenza lo stesso Stahelski, forse si, ma sicuramente dopo una lunga pausa durante la quale trovare nuova linfa creativa.