La malinconia delle note jazz di Caravan accompagna la conversazione fitta tra due uomini, seduti al piano bar di un lussuoso hotel; sono un attore e un regista, entrambi due colossi della settima arte italiana prossimi ad attraversare un’età crepuscolare, popolata di struggenti ricordi e passioni finite, tempo trascorso e molta vita al suo interno. Come nel finale di partita di una stagione amarcord, riflettono sull’arte e sull’esistenza, e su quanto le due siano le facce di una stessa medaglia, un Narciso perduto che si specchia nel riflesso della propria fatale bellezza.
Questa è una delle tante immagini mozzafiato che compongono il complesso mosaico del film Il ritorno di Casanova, nuova fatica che riporta il regista Premio Oscar Gabriele Salvatores dietro la macchina da presa, a pochi anni di distanza dal precedente Comedians. Anche in questo caso, è forte il legame con il mondo dello spettacolo e, in particolare, con il teatro e la letteratura, con il libero adattamento dell’opera omonima di Arthur Schnitzler che ha fornito l’assist creativo per questa nuova impresa, presentata in anteprima al Bif&st 2023 e pronta ad approdare nelle sale dal 30 marzo.
Leo Bernardi (Toni Servillo, È stata la mano di Dio, Il primo giorno della mia vita) è un affermato e acclamato regista alla fine della sua carriera, che non ha alcuna intenzione di accettare il suo lento declino. Per la sua ultima opera, Leo ha scelto di raccontare il Casanova di Arthur Schnitzler, un personaggio incredibilmente simile a lui, più di quanto lui stesso possa immaginare. Quello raccontato da Schnitzler è un Casanova (Fabrizio Bentivoglio, Monterossi – La serie, Settembre) che ha superato la sua gioventù e i tempi di gloria, ormai andati via: non ha più il suo fascino e il suo potere sulle donne, non ha più un soldo in tasca, non ha più voglia di girare l’Europa.
Dopo anni di esilio, ha un solo obiettivo, ovvero tornare a Venezia, casa sua. Ma nel suo viaggio verso casa, Casanova conosce una ragazza, Marcolina, che riaccende una fame di conquista che non sentiva da anni. Nel tentativo di sedurla, l’uomo arriverà alla più tragica delle conclusioni: è diventato vecchio. Non è un caso se Leo Bernardi abbia deciso di raccontare questa storia proprio adesso, in un momento cruciale della sua vita e della sua carriera. Le inquietudini e i dubbi dei due sono incredibilmente simili. È più importante il Cinema o la Vita? Continuare a recitare il proprio personaggio o lasciarsi andare alle sorprese che la Vita ti propone?
“La vita vera è quella sullo schermo”, esclama ad un certo punto il Leo Bernardi incarnato da un disincantato – e, forse, anche rassegnato – Toni Servillo: ecco perché la vicenda fittizia di Casanova è a colori, dipinta dai tocchi di una densa palette satura e vitale, ricca di sfumature umane, emotive e psicologiche. Au contraire, la vita di Bernardi è in un bianco e nero pastoso ed estetizzante che richiama, alla mente dello spettatore, la struggente malinconia creativa del Woody Allen di Manhattan e, soprattutto, Stardust Memories: anche lì, in questi due cult, l’autore-regista raccontava la crisi dell’uomo e dell’artista, sullo sfondo di una New York suggestiva e remota.
Il richiamo inscindibile con il tema del doppio
Qui siamo sempre di fronte a dei non-luoghi della mente, scenari che riflettono i conflitti interiori dello stesso Leo, lanciato in un viaggio interiore alla ricerca del proprio “posto delle fragole” sospeso tra passato e presente. Nei suoi ricordi più recenti c’è una giovanissima donna-musa (Sara Serraiocco) che fa capolino, ancorata alla terra e alla materia viva e pulsante, lontana dagli effimeri voli pindarici dell’arte eppure mai così evocativa. Un tocco felliniano, così come accadeva nel classico 8½, con echi e rimandi continui al cinema del grande regista romagnolo, tra la figura di Casanova e il bianco e nero glam (quanto amaro) de La dolce vita.
Ma dietro una prima lettura, superando l’impatto estetico e i richiami meta-cinematografici disseminati nell’arco dell’intero film, Il ritorno di Casanova svela – nella sua essenza – il richiamo inscindibile con il tema del doppio, del riflesso, del doppelgänger spettrale che attraversa febbrilmente l’intera opera di Schnitzler: come sospeso in un Doppio sogno, Bernardi e Casanova si muovono lungo due rette parallele destinate a non incontrarsi mai, affrontando situazioni e avventure, tormentati da un mancato patto faustiano che possa permettere loro di fermare il tempo, rallentando quell’inesorabile crepuscolo dell’esistenza al quale finiamo per assistere tutti, nonostante le riluttanze e le difficoltà.
Eppure è ancora una volta l’Arte stessa a ricoprire un ruolo salvifico e psicanalitico, dimostrando di essere l’unico strumento creativo conoscibile per scavare dentro di sé, per affrontare un viaggio interiore verso la scoperta della consapevolezza: “un film dura per sempre?”, “Dura finché c’è qualcuno che vuole vederlo”, replica Bernardi in un serrato botta e risposta del film. E mai come ne Il ritorno di Casanova il cinema diventa il mezzo per sottoscrivere quel faustiano patto, per fermare l’attimo sullo schermo giusto il tempo di una proiezione, consegnando così un film alla persistenza della memoria nell’eternità della settima arte.
E il Casanova fallito dello schermo, novello Don Giovanni consapevole del fallimento della vita estetica, perde all’improvviso tutto il proprio fascino fittizio e ideale, trasformando così il melanconico Bernardi – schivo, impacciato nei confronti del nuovo che avanza (come la fulminea carriera del regista/rivale Lorenzo Marino, interpretato da Marco Bonadei) e delle novità che possono travolgere la propria esistenza irreale – in una sorta di anti-eroe che attraversa l’esistenza alla ricerca (inconsapevole) del suo stesso significato, cercando di trovarlo tra le ombre illusorie dei riflessi di quella stanza degli specchi che è il cinema, tra scene girate, moviole e film da montare, festival e alte aspettative da soddisfare.
E il risultato è, ancora una volta, una sorta di road movie interiore, un tema tanto caro alla cinematografia eclettica e creativa di Gabriele Salvatores, da sempre interessato a raccontare tanto il concetto di viaggio come fuga volontaria e modo per ritrovare se stessi nei posti più impensati, quanto anche i retroscena di un mondo dello spettacolo lontano dalle luci glam della ribalta e più vicino agli affanni, alle idiosincrasie, ai dolori e alle malinconie raccontate in film come il sopracitato Comedians, ma anche Turné o Kamikazen – Ultima notte a Milano.