È un fatto che siano pochi i registi uomini che abbiano l’abitudine (e anche la volontà) di mettere al centro delle loro storie i personaggi femminili. Sicuramente, rientra in questo ristrettissimo gruppo Sebastiàn Lelio, l’acclamato regista e sceneggiatore cileno che fin da quando è esploso a livello internazionale con Gloria del 2013 e Una donna fantastica del 2017, si è sempre dimostrato un attento e delicato indagatore del profondo e stratificato universo femminile.
Questo precisa intenzione di portare sullo schermo ritratti di donne potenti, determinate ma anche fragili è stata portata avanti anche con i successivi Disobedience, sempre del 2017, e Gloria Bell del 2018 (remake americano del film citato poc’anzi, con protagonista Julianne Moore). Per il suo ritorno dietro la macchina da presa, Lelio sceglie ancora una volta di raccontare una storia che ruota attorno alle antinomie del femminile, adattando per la sua prima collaborazione con il colosso dello streaming Netflix il romanzo “Il prodigio” della scrittrice canadese Emma Donoghue, nota per essere l’autrice di “Stanza, letto, armadio, specchio”, dal quale venne tratto il film Room con protagonista Brie Larson.
Siamo nel 1862, a 13 anni di distanza dalla fine della Grande Carestia. L’infermiera inglese Lib Wright (interpretata da Florence Pugh) viene chiamata nelle Midlands irlandesi per condurre un esame, nell’arco di quindici giorni, su una ragazzina di undici anni appartenente ad una comunità di devoti, Anna O’Donnell (interpretata da Kíla Lord Cassidy), la quale afferma di non mangiare da quattro mesi e di riuscire a sopravvivere miracolosamente grazie alla “manna dal cielo”. Quando le condizioni di salute di Anna peggiorano, Lib è determinata a scoprire la verità, sfidando la fede di una comunità che farebbe di tutto pur di non dover mettere in discussione il proprio credo.
Lelio ama raccontare le donne, ma anche circondarsi e lasciarsi influenzare dalla loro vena creativa. L’ambizione del regista e sceneggiatore cileno di far luce sugli anfratti più oscuri e misteriosi dell’animo femminile culmina questa volta in un period drama in cui, per la prima volta, si concede il lusso di esplorare territori inquietanti avvalendosi, nel processo di trasposizione dalle pagine allo schermo di questa storia profondamente angosciante, del prezioso contribuito della stessa Donoghue e di Alice Birch, sceneggiatrice britannica che ha apposto la sua firma sull’acclamata serie Normal People.

Tra religione e scienza, tra fede e ragione
Il risultato finale è un film potente che mette in scena il tradizionale dualismo tra religione e scienza, tra fede e ragione, in maniera solerte, inequivocabile, servendosi di una solida impalcatura narrativa per dimostrare quanto sia complesso – se non impossibile – dipanare questioni che vedono schierate, come sul più cruento dei campi di battaglia, tutte queste ataviche dicotomie. E così il mistero non può che diventare ancora più indistricabile, mentre Sebastiàn Lelio si dimostra un vero maestro nel saper gestire la tensione e mantenerla costante dall’inizio alla fine.
Ne Il prodigio, i personaggi lottano costantemente con la disperazione e l’incertezza, sorretti però da una pervicace ostinazione rispetto a ciò in cui hanno scelto di credere, apparendo incrollabili di fronte a chi – in un senso o nell’altro – vuole dimostrare loro il contrario. Florence Pugh, che per la terza volta si cimenta con un dramma d’epoca (dopo il folgorante esordio con Lady Macbeth e il bellissimo adattamento di Piccole donne ad opera di Greta Gerwig), dimostra ancora una volta di possedere un talento folgorante, dando voce e corpo a quel dubbio lecito ma asfissiante, che non dà mai tregua, attraverso il ritratto di una donna costantemente in bilico tra impegno e frustrazione, segnata da un passato di perdita e di abbandono.
Intorno a lei si agitano figure dai contorni quasi spettrali, come l’enigmatico giornalista William Byrne (interpretato da un affascinante Tom Burke, già apprezzato in Mank di David Fincher), deciso a vederci chiaro al pari di Lib, o come la piccola Anna O’Donnell (interpretata da una bravissima Kíla Lord Cassidy), la “bambina digiunante” che al contrario dell’infermiera incarna la fede cieca, quella ingabbiata però dal fanatismo e dalle superstizioni che vorrebbero vederla ad ogni costo trasformarsi in una “martire”, in un autentico “miracolo vivente”, e che impediscono di scorgere la verità, circondata sempre più da una nube grigia di integralismo che non accenna mai a dissolversi.
La scelta di aprire e chiudere il film con l’immagine di un set in costruzione, non è casuale. Portandoci dentro e fuori la realtà cinematografica, Sebastiàn Lelio rende chiara fin da subito la sfida che intende lanciare allo spettatore: come nel gioco del taumatropio, dove siamo noi a decidere se credere che l’uccellino sia prigioniero o libero, se sia dentro la gabbia o fuori di essa, così ne Il prodigio siamo noi a decidere se credere o meno alla storia che ci viene raccontata, esattamente come fanno i personaggi che in essa sono coinvolti e che senza non sarebbero nessuno, vittime di un mondo carico di afflizione dove chi sceglie di abbandonarsi a illusioni e spirali di delirio abusando dell’innocenza, verrà sempre osteggiato da chi, con coraggio e determinazione, riesce a non perdere la bussola della razionalità, nonostante il dolore.