Presentata in anteprima alla 74ª edizione del Festival di Cannes, sezione “Un certain Regard”. Tre titoli distinti, tre aspetti pregnanti della stessa opera, la prima firmata da Laura Wandel, classe ‘84: Il patto del silenzio, Un monde, Playground.
Il “patto” si stringe fra Nora (Maya Vanderbeque) e Abel (Günter Duret), sorellina e fratellino: il “silenzio” si stende sulle cattiverie subite dal secondo fuori e dentro la scuola, ferocia senza radice né scopo. «Perché te lo hanno fatto?» domanda Nora ad Abel. Nessuna risposta. Chi mai potrebbe darla? La scuola è “il mondo” o, meglio, un’anticipazione, una riduzione in scala di esso. Le leggi che lo governano sono inequivocabili, ben definite. “Qui chi non terrorizza si ammala di terrore” cantava De André. C’è di peggio. Chi non vuol essere più oggetto di percosse deve, anzi è condannato a diventare assalitore e carnefice a sua volta, prima spingendo la testa del poveretto di turno nella tazza del water, poi sbattendolo contro un cancello, soffocarlo con un sacchetto di plastica e domani… chissà. Se il Mondo, come si legge nel Vangelo, è il regno dell’Avversario e la scuola è un “simulacro” del Mondo, il Male non può, dunque, che spadroneggiarvi, seppur per riflesso. Né Nora né Abel hanno chiesto di essere ammessi in questo regno… ma ci sono. E devono rimanerci, benché non vi appartengano.
Nora proviene, infatti, “dalle stelle”, da remote galassie, disegnate ai lati della cartellina, quasi a rammentarle la “vera casa” che si è lasciata alle spalle. Là non conosceva offesa né emarginazione. Ora sta invece imparando che è meglio essere mal accompagnati (magari con la vicina di banco, educata dalla madre «ad accettare tutti» per un meccanico, malinteso senso di egualitarismo anziché sincero affetto) che soli: condizione, l’ultima, che può rendere, sì, liberi ma fatalmente incompresi. Non di tutte le amiche, certo, bisogna diffidare. Allacciarsi le stringhe, ad esempio, è una fra le tante sfide e non delle più semplici per una bimbina: una coetanea aiuterà Nora e l’attenzione verrà da lei affettuosamente ricambiata. «È lodevole che tu voglia aiutare gli altri ma potresti commettere uno sbaglio» ammonisce la maestra (Laura Verlinden): la nostra, obtorto collo, segue alla lettera.
L’avventura “didattica” procede e, prostrato, lo spettatore si convince che il bullismo (tema che dominerà senz’altro le discussioni che si creeranno attorno al film benché, ad onor del vero, non sia il principale o il più importante) non è faccenda che gli adulti possano gestire. Aggravano, al contrario, le cose: troppo protettivi o troppo inetti per capire che le scuse (sulle labbra del preside falsità e impotenza hanno il rassicurante suono della diplomazia, del buon consiglio) non bastano a curare ferite interiori, ancora sanguinanti. Le lezioni mattutine, poi, fanno prematuramente sentire agli alunni il peso del Tempo, della Finitudine: filastrocche sulla fragile natura dei fiori, uccelli che spiccano un breve, rovinoso volo.
La scuola come riduzione in scala del mondo
La Morte in sé, benché non investa mai i protagonisti, comincia già ad esser privata ai loro occhi, a poco a poco, di ogni mistero, pudore o primordiale “bellezza”, propri anche dei “riti” che rammentano e ugualmente esorcizzano l’irrevocabile passaggio: la maestra impedisce, infatti, a Nora e alle amichette di ornare di fiori l’ingenua a “tomba” di sabbia e sassolini appena scavata per un rondone. Episodio notevole e al tempo stesso insostenibile, che sembra fondere insieme due grandi suggestioni cinematografiche: il cimitero per animali preparato da Paulette e Michel nel capolavoro Giochi proibiti (’52) di Clément e la meno nota, ma non meno struggente sequenza della spiaggia in La vita corre sul filo (’65) di Pollack – Inga (Anne Bancroft) non fa in tempo a prendere un goccio di liquore per ravvivare una sterna tramortita che l’uccello, al suo ritorno, è di colpo spirato e un gruppetto di bambini lo ha seppellito, spargendovi attorno legnetti e minuscole conchiglie bianche.
Si dovrebbe allora fuggire, scendere, giù, sempre più giù… far ritorno all’Abisso (“playground” significa letteralmente “campetto per la ricreazione” ma viene in mente l’espressione “Devil’s playground”, “terreno fertile per il Maligno” o, in senso figurato, “scure profondità”) da cui si è venuti, pelagico o astrale che sia. «Quant’è profondo il mare?» chiede Nora al papà (Karim Leklou) dopo l’ora di piscina, cessata da qualche giorno di essere un momento di svago. Sorvegliare e punire, venir puniti noi stessi a volte e sperare quindi di accrescere, al momento giusto, la forza per opporsi a quelle regole che, in teoria, dovevano garantire l’ordine ma che, di fatto, mascheravano insanabili orrori e contraddizioni. Può l’amore rivelarsi la medicina, la soluzione a lungo cercata?
Siamo così giunti all’unica “pecca” de Un monde, gioiello intagliato dalla belga Wandel nel ricordo dei compatrioti fratelli Dardenne: l’abbraccio finale fra Nora e Abel. Ha, senza dubbio, la valenza di un salvagente lanciato ad un naufrago, il guaio che è anche la “scialuppa” è in balia della corrente. L’odio, la brutalità (germogliati in Abel, abusato e abusante insieme) non sono sempre “nefandi ripieghi” alla mancanza d’amore, d’attenzione. Come è capitato allo scrivente di suggerire in passati articoli, il Cinema non possiede la forza di spiegare (o reggere) taluni argomenti: salvo felici eccezioni (i recenti Bande de filles e La forma della voce), la prepotenza in età scolare e le sue infinite, insidiose varianti è (ancora?) fra questi.
Da menzionare i preziosi contributi di Philippe Bertin (Offline) alle ambientazioni e di Frédéric Noirhomme (Weldi, Petit Samedi) alle immagini, algide e “carcerarie”. Per un confronto, si consigliano The Reunion (Återträffen) di Anna Odell e il suindicato classico Giochi proibiti.