L’Italia de Il mio posto è qui è un’Italia liberata dalla morsa della Seconda guerra mondiale, ma non è un’Italia liberata dal retaggio di chi e cosa in quella guerra l’ha trascinata. «Non vedo l’ora di partire» dice il giovane compagno di Marta (Ludovica Martino), che per quel conflitto infatti poi parte e finisce per morirci. Ma non prima di aver lasciato in bocca a Marta un dolore e nel suo grembo un figlio, creatura amata ma che per la ragazza ventenne, e per la sua ben poco comprensiva famiglia, è condanna alle civetterie e agli stigmi del paese.
Figlio, insomma, anche di quella grande menzogna che fu il fascismo, velenosa forma di una società con la quale il film traccia un filo rosso nel delineare i confini di un racconto dove l’ignoranza e l’umana cattiveria sembrano impedire il respiro. Daniela Di Porto, autrice del romanzo omonimo e all’esordio al cinema, e Cristiano Bortone scrivono e dirigono quindi un’opera dalla forte impronta sociale, compendio dolente agli sforzi e agli affanni di una giovane donna in cerca di emancipazione in un dopoguerra di macerie anche umane.
Un’amicizia come alleanza
Dopo questa vedovanza fantasma, perché senza matrimonio, Marta è costretta tra la vergogna perpetua e il capo chino. Le donne del paesino, uno spazio arroccato tra le aspre montagne della Calabria, civettano e parlano dietro, mentre gli uomini rumoreggiano e al contempo desiderano. Marta è allora obbligata da padre e madre (Francesco Biscione e Bianca Maria D’Amato) ad accettare un matrimonio con un uomo più grande e rude, il signor Gino (Antonino Sgrò). E nel corso dei preparativi al matrimonio trova però conforto nell’amicizia un po’ sbilenca con Lorenzo (Marco Leonardi), gay dichiarato e poco più che tollerato dagli altri abitanti.
Partendo da questo canovaccio, Il mio posto è qui mescola le costrizioni e i diritti della donna alla solidarietà con un’altra realtà marginalizzata come quella della comunità omosessuale, scegliendo il legame tra Marta e Lorenzo come archetipo a quelli che saranno i movimenti sociali degli anni ’60. Sullo sfondo, infatti, si affacciano le lotte femministe e l’imminente accesso al voto per le donne (sulla scia di un’opera fenomeno come C’è ancora domani, che rendeva il discorso ancora più cruciale) al quale Marta è tentata di partecipare, nonostante lo scetticismo e la denigrazione dell’opinione degli uomini del posto.
Tramite Leonardo entra anche in contatto con membri del PCI e da qui amplia l’orizzonte di quella che potrebbe essere la sua vita, sulla quale si affaccia la possibilità di imparare un mestiere e quindi rendersi almeno in parte indipendente. Ma lo scontro si combatte anche e soprattutto sul terreno del conflitto con il maschile, cardine di quell’impostazione patriarcale della società (e della religione) dove «l’uomo è il capofamiglia, porta da mangiare a casa e il cui sudore è come l’acqua santa».
Cinema e riflessione non sempre equilibrato
Ciò che Il mio posto è qui vuole raccontare, anzi accusare, è insomma ben chiaro e ben posto in vista. E, a dire il vero, in questo pragmatismo della manifestazione della grettezza umana finisce per chiudersi dentro un pelo troppo. La sceneggiatura di Di Porto e Bortone, nonostante una struttura di fondo composta da cinema-riflessione, lavora in maniera abbastanza programmatica e meccanica quando scende a raccontare caratteri, tensioni e rovesciamenti. Si abbandona a raccontare con alcune lungaggini sequenze di sospetti e pedinamenti, così come con goffezza ad alcune scelte narrative comprensibili ma rese in maniera discutibile, quale ad esempio un momento di travestitismo volto a smascherare le contraddizioni e le ipocrisie degli abitanti del luogo.
Questi sono snodi drammaturgici che affievoliscono il portato del film, sciupato talvolta pure in un idealismo politico infiocchettato per funzionare all’occorrenza e in simbolismi non sempre ottimali – buona l’idea del riprendere questo paesino sempre come un luogo chiuso e soffocante tra vicoli e rocce, meno sottolineature come quelle di Gino macellaio e mattatore. Anche l’amicizia tra Marta e Lorenzo, dove Martino e Leonardi condividono una buona affinità, si alimenta di alcuni alti e bassi. Il loro rapporto scioglie in maniera abbastanza repentina le incomprensioni, a partire dal grande groppo di un pregiudizio che invece, in una buona intuizione di alcuni flashback, è mostrato come fatto comune e maligno. Insomma, Il mio posto è qui mette a fuoco il cuore del discorso, ma non sempre tiene saldo un baricentro emotivo e drammaturgico.