Accompagnato da una caterva di polemiche animate da più fronti, è finalmente pronto a debuttare anche nelle sale italiane, dal 16 dicembre, l’atteso e controverso House of Gucci, dopo un esordio avvenuto in patria lo scorso 24 novembre che ha fortemente diviso la critica. C’è chi ha parlato di trionfo del trash e del cattivo gusto, chi invece di elogio del camp; chi ha gridato al disastro su tutta la linea e chi al capolavoro; chi ancora ha tirato in ballo le grandi saghe familiari che, sulla scia dell’immortale Il padrino, intrattengono e appassiono da generazioni milioni di spettatori.
Tratto dal romanzo di Sara Gay Forden intitolato “The House of Gucci: A Sensational Story of Murder, Madness, Glamour, and Greed”, il film di Ridley Scott (reduce dal bellissimo The Last Duel, uscito nelle sale appena due mesi fa) ripercorre gli eventi che portarono ad un celebre fatto di cronaca degli anni ’90, ossia l’omicidio di Maurizio Gucci, all’epoca imprenditore e presidente della casa di moda Gucci, ordinato dalla moglie Patrizia Reggiani.
House of Gucci ruba da generi codificati, di certo molto amati dal grande pubblico, che intrecciandosi tra di loro danno vita ad una miscela straniante, ma al tempo stesso conturbante e affascinante. Si è spesso convinti che solo la mente ipercreativa di brillanti sceneggiatori sia in grado di partorire storie incredibili, fuori dall’ordinario. Al contrario, molto spesso è proprio la realtà ad offrire al cinema la possibilità di raccontare storie talmente assurde da non sembrare neanche vere.
La storia di House of Gucci si muove lungo due binari paralleli: da una parte abbiamo il racconto della relazione tra Patrizia e Maurizio, un amore contrastato, alimentato dalla passione ma anche dall’ambizione e dalla convinzione di meritare di più di quello che si possiede; dall’altra, invece, abbiamo il racconto della dinastia dei Gucci, un’epopea familiare a tutti gli effetti, fatta di avidità, segreti, tradimenti, scandali, vendette e, naturalmente, soldi.
Queste due linee narrative rappresentano i due poli opposti, ma complementari, di un racconto in bilico tra biopic e dramma, su cui aleggia lo spettro di una componente da crime thriller che riguarda ovviamente l’omicidio di Maurizio e che, all’interno di una smaccata cornice da soap opera, va ad occupare uno spazio davvero infinitesimale rispetto all’importanza che viene data agli eventi che portarono al delitto vero e proprio.
In un marasma volutamente esagerato di vicende che si ispirano soltanto ai fatti (e misfatti) realmente accaduti, la sensazione è che Ridley Scott non abbia comunque voluto lasciare nulla al caso, dando ampio spazio al racconto e ai personaggi, prendendosi tutto il tempo necessario per sviscerare un caso assolutamente eccezionale, senza la paura di risultare anacronistico e senza mai perdere di vista il senso del ritmo, appoggiandosi ad una struttura compatta, addensata, che impedisce sorprendentemente alla storia di non incartarsi mai su se stessa (nonostante le quasi tre ore di durata).
Scott mette quindi al primo posto, ancora una volta, il gusto per lo spettacolo inteso come soddisfazione massima del piacere retinico dello spettatore, per la messa in scena ammaliante e le immagini seducenti, per il racconto a tratti inverosimile ma sempre in grado di intrattenere e incuriosire (i cui tempi vengono scanditi anche da una trascinante colonna sonora), ma anche quello per la costruzione di personaggi assurdi e sopra le righe.
Indubbiamente, gran parte del fascino del film deriva soprattutto dalle interpretazioni letteralmente “ingombranti” di un cast stellare che dà vita a personalità tragicomiche, estremamente complesse, larger than life direbbe qualcuno, su cui aleggia un destino beffardo e inesorabile (reso tangibile visivamente dalla fotografia desaturata di Dariusz Wolski), e che Scott, da grande maestro qual è, dimostra di sapere “giostrare” a suo piacimento (la scelta di far recitare i protagonisti in inglese con un finto accento italiano, ad esempio, conferisce al film un’allure consapevolmente operettistico, di cui tutti sembrano andare fieri).
Adam Driver (interprete di Maurizio Gucci, che torna a lavorare con il regista britannico dopo il sopracitato The Last Duel) e Jeremy Irons (suo padre, Rodolfo Gucci) offrono due performance incredibilmente misurate, in netto contrasto con l’irresistibile e travolgente gara di gigioneria messa in scena da Jared Leto (suo cugino, Paolo Gucci) e Al Pacino (suo zio, Aldo Gucci), che danno vita ad un vero e proprio scontro fra giganti, come fossero su un palcoscenico a scalpitare per l’ultimo applauso crosciante di un pubblico in visibilio. E nonostante il ridotto minutaggio a disposizione, anche Salma Hayek riesce a brillare nelle insolite e pittoresche vesti di Giuseppina Auriemma, la sedicente maga che diventerà amica e confidente intima di Patrizia Reggiani.
Tuttavia, l’elemento migliore del gruppo, la vera punta di diamante, è senza ombra di dubbio Lady Gaga. Dopo il folgorante esordio sul grande schermo con A Star Is Born, la cantante di origini italiane dimostra di essere un’attrice sorprendente, dotata di una profondità e varietà di toni che lasciano a bocca aperta, rubando la scena “in un mondo dominato dagli uomini” e riuscendo a restituire a pieno l’ottovolante emotivo su cui viaggia come una scheggia impazzita la sua “Vedova Nera” (così venne soprannominata la Reggiani dalla stampa all’epoca dell’omicidio del marito).
Il ritratto che la superstar offre di Patrizia è, infatti, quello di una donna che da ingenua sognatrice si trasforma in arrampicatrice sociale prima e in subdola manipolatrice dopo, fino al tragico epilogo che la vede trasformarsi ancora una volta, da donna tradita e addolorata a inarrestabile e vendicativa furia cieca. Di certo, un maggiore approfondimento psicologico di un personaggio così discusso avrebbe potuto offrire una chiave di lettura quantomeno inedita, rovesciando idealmente prospettive e giudizi (o pregiudizi).
Purtroppo, Scott e gli sceneggiatori si limitano a ricostruire gli eventi e a narrarli secondo il loro ordine cronologico (il regista aveva utilizzato un approccio simile anche in Tutti i soldi del mondo), senza dare allo spettatore la possibilità di interrogarsi sui reali motivi che potrebbero aver spinto la Reggiani a commettere un gesto così disumano (in tal senso, lo sviluppo emotivo del personaggio di Patrizia risulta forse troppo repentino, sicuramente più annacquato, nella parte finale).
In House of Gucci, più elementi all’apparenza discordanti finiscono, in realtà, per dare forma solida e concreta ad un clamoroso e strabordante concatenarsi di avvenimenti che, se all’inizio destano forse più di una perplessità, alla fine, quasi inevitabilmente, catturano e rapiscono, come forse solo un bellissimo e folle guazzabuglio è in grado di fare.
Aiutato da una storia che intrinsecamente ha tutte le carte in regola per destare estrema curiosità (una storia tutta italiana filtrata dal punto di vista di una visione prettamente americana), Ridley Scott estrapola dalla brutale e vorticosa storia dell’impero Gucci tutta l’ironia tragica, concependo un film è che tanto carismatico quanto i personaggi assurdi e la storia assolutamente folle che racconta.