Hill of Vision è il titolo del nuovo film che riporta Roberto Faenza dietro la macchina da presa: in attesa di vederlo alle prese con un nuovo progetto sulla poetessa Alda Merini (interpretata da Monica Guerritore) e dopo La verità sta in cielo (2016), il regista torinese unisce le forze con le produttrici Elda Ferri e il Premio Oscar Milena Canonero per raccontare l’incredibile storia di Mario Capecchi, Premio Nobel per la medicina nel 2007 che ha vissuto un’infanzia a dir poco straordinaria, tra rocambolesche avventure, lo spettro incalzante della guerra mondiale, un’esistenza da vagabondo e le difficoltà di ricominciare da zero negli Stati Uniti. Presentato in anteprima al Bif&st 2022, il film – che vede nel cast Laura Haddock, Edward Holcroft, Elisa Lasowski, Rosa Diletta Rossi e la partecipazione di Francesco Montanari – uscirà nelle sale italiane a partire dal 16 giugno.
Ambientato in Italia durante la Seconda guerra mondiale, Hill of Vision racconta la storia di Mario Capecchi, un bambino di quattro anni divenuto, di colpo, un vagabondo, dopo che sua madre è stata arrestata e deportata dai fascisti in un campo di sterminio e suo padre – fascista e interventista convinto – è invece scappato tra le braccia del conflitto. Mario trascorre la sua infanzia per strada, cercando di vivere di espedienti e piccoli furti; finché, finita la guerra, non riabbraccia sua madre che è sopravvissuta al campo. Insieme decidono di ricominciare una nuova vita in America, paese natio della donna: qui i due si trasferiscono nella comunità quacchera – meglio nota come Hill of Vision – nella quale vivono gli zii, ma Mario non riesce subito ad ambientarsi. Ad essere importante sarà la presenza costante dello zio fisico, la volontà di aiutare sua madre (affetta da un grave disturbo da stress post traumatico) e la nascente passione per la scienza che gli permetteranno di ritrovare una nuova quiete dopo le atrocità della guerra.
Hill of Vision è un film focalizzato sul racconto, onesto e lineare, di una vicenda umana larger than life: la storia di Capecchi è straordinaria quanto emblematica, dimostrazione vivente della capacità umana di resistere alle avversità e di rispondere alle sollecitazioni esterne, in una vera e propria prova di resilienza contro le difficoltà inferte dal destino. Capecchi si trasforma così in un simbolo, un transfert “di celluloide” dei suoi corrispettivi letterari Oliver Twist e David Copperfield, bambino dickensiano sperduto in un mondo crudele e ferino, dove solo attraverso incredibili peripezie si riesce, infine, a coronare il sogno di un lieto fine. Due capolavori letterari di Charles Dickens non citati per caso, insieme ad un altro grande classico come Grandi Speranze, anche nel corso della nostra videointervista a Faenza: perfino la sua regia sembra voler evocare quelle atmosfere oniriche e perturbanti, nelle quali gli orrori della guerra deflagrano tra le pieghe della mente di un bambino. La regia è “a misura di Mario”, pronta a condividere la sua percezione – e il suo personale punto di vista – sugli eventi, gli incontri e le situazioni che si susseguono sullo schermo.
Le numerose buone intenzioni alla base di Hill of Vision trasformano il film in un’opera didattica fondamentale soprattutto sul piano formativo, per mutare una vicenda personale in un emblema universale, capace di persuadere tutti che “volere è potere”, e che con un’incrollabile – quanto ostinata – forza di volontà (e un pizzico di fortuna) si possono ottenere grandissimi risultati, raggiungendo i propri obiettivi; ma nonostante questi temi importanti, una sensazione di straniamento sembra aleggiare sull’intera visione. Come se l’opera di Faenza appartenesse, dal punto di vista estetico-formale, ad un’altra epoca, un tempo lontano in cui lo standard per un concept cinematografico seguiva una struttura simile, sacrificando – in nome di una buona storia – ritmo, montaggio, dramma (inteso come azione) e approfondimento dei personaggi.
I characters che si muovono sulla scena di Hill of Vision sono archetipi, topoi fissi che danno vita a storie universali e omnicomprensive per il grande pubblico generico (e generalista); le situazioni che si dipanano sullo schermo sono talmente dense sul piano emotivo che forse avrebbero bisogno di un approfondimento maggiore, di più tempo per poter imitare meglio la realtà risultando credibili e verosimili. Hill of Vision, per poter maneggiare con molta cura tutto questo denso materiale, sceglie di optare per la via più lineare, sposando le regole di un cinema classico che appartiene, purtroppo, ad un altro tempo; ed è proprio inseguendo queste convenzioni che finisce per imbrigliare l’enorme potenziale drammatico, ridimensionandolo in un’ottica didattica – e didascalica – consona ma dal fascino timido, priva di quella voglia dirompente pronta a stupire il pubblico con l’effetto straordinario più stupefacente: le mirabolanti (e inattese) virtù della vita stessa.