Il cinema non è solo una macchina dello spazio, capace di trasportarci in giro per il mondo (le avventure intorno al globo di personaggi come James Bond e Indiana Jones) e di catapultarci in scenari fantastici (Guerre stellari, Il Signore degli Anelli), ma anche una straordinaria macchina del tempo. Non solo può attraversare le varie epoche, ma offre anche la possibilità di giocare con la percezione stessa del tempo. Prendiamo per esempio una pellicola come 1917 di Sam Mendes, dove l’azione dell’operazione militare messa in scena viene compressa in due ore di durata, dando però allo spettatore l’illusione di assistere agli eventi narrati in tempo reale, attraverso un lungo ed elaborato piano sequenza. Una compressione che riguarda anche lo spazio, contratto in una sorta di mappa da videogioco. Una cosa è certa, i film sono davvero un mezzo espressivo eccezionale, con l’abilità di racchiudere e sintetizzare vite intere, spesso creando complessi arazzi narrativi (Boyhood).
E proprio spazio e tempo sono al centro del nuovo ambizioso lavoro di Robert Zemeckis: Here, disponibile nelle nostre sale a partire dal 9 gennaio. Dopo l’infelice adattamento live action del Pinocchio della Disney, il regista della trilogia di Ritorno al futuro torna, questa volta, a collaborare con lo sceneggiatore Eric Roth, con cui aveva realizzato trent’anni prima Forrest Gump. Una reunion che coinvolge anche i protagonisti della celebre pellicola del ’94, Tom Hanks e Robin Wright. Basato sull’omonima graphic novel di Richard McGuire, Here si propone di raccontare la storia di un luogo – principalmente una casa, ma nei periodi più remoti ci ritroveremo sul terreno dove sorgerà in futuro – e degli inquilini che lo hanno abitato nel tempo, tutto ripreso dal solito punto d’osservazione: un’inquadratura fissa che attraversa i secoli, in una narrazione non lineare che salta tra passato, più o meno remoto, e presente. Un grande affresco composto da tante piccole storie private che si intrecciano, dall’era dei dinosauri al COVID-19, mentre i grandi eventi storici rimangono sullo sfondo.
Un viaggio nel tempo in una singola inquadratura
Il cuore del racconto è sicuramente rappresentato dalla vita della famiglia Young, entrata in possesso della casa al centro del film nel 1945, con l’acquisto della suddetta da parte di Al (Paul Bettany), reduce del secondo conflitto mondiale, e della moglie Rose (Kelly Reilly). In seguito, la dimora passa alla coppia composta da loro figlio Richard (Hanks) e da Margaret (Wright), che la abiterà fino ai primi anni 2000, tra alti e bassi. Si alternano a questa saga familiare, che occupa la parte più consistente della pellicola, storie minori, ambientate nei periodi più disparati della storia americana (la guerra d’indipendenza, l’inizio del XX secolo). Le vite raccontate vanno da quella di alcuni nativi, prima dell’arrivo dei coloni europei, a quella dell’inventore Leo (David Fynn), intento a lavorare su un nuovo modello di poltrona reclinabile negli anni ’40. Chiude la lista degli inquilini, la famiglia afroamericana degli Harris, che si troverà ad attraversare alcuni dei fatti più rilevanti degli ultimi anni, da Black Lives Matter alla pandemia.
Si potrebbe considerare il lavoro portato avanti da Here sul tempo e sullo spazio il contrario di quanto attuato dal succitato 1917 di Mendes. Mentre quest’ultimo mette in scena una storia lineare e in cui tempo della storia e del racconto, utilizzando qualche trucchetto, più o meno coincidono, la pellicola di Zemeckis sceglie invece la complessità del racconto corale, oltretutto presentato in ordine perlopiù non cronologico, saltando avanti e indietro lungo la linea temporale. Dal punto di vista dello spazio poi, in 1917 abbiamo un personaggio in costante movimento da una location all’altra, sempre seguito dalla cinepresa in un singolo e dinamico piano sequenza, contrapposto invece all’unità di luogo di Here, sebbene lo scenario delle vicende si trasformi drasticamente negli anni. Spazio, oltretutto, ripreso sempre dalla solita inquadratura fissa del soggiorno della casa (l’unico movimento di macchina avverrà sul finale).
Monotonia e poche emozioni
Here cerca di controbilanciare questa scelta di regia estrema, volta all’immobilismo più totale della macchina da presa, non solo con continui salti temporali, ma anche attraverso la sovrapposizione di scene ambientate in periodi storici diversi mediante l’utilizzo di riquadri, riprendendo la struttura delle vignette di un albo a fumetti (trovata quasi sicuramente mutuata dalle tavole della graphic novel originale). Pur adottando questo espediente, la pellicola non riesce a sfuggire a un senso di noia diffuso, con la stragrande maggioranza delle scene rinchiuse tra quattro mura, senza poter nemmeno contare sull’alternanza di inquadrature da angolazioni differenti. In certe situazioni, si sente proprio la mancanza di un montaggio che sia in grado di dare ritmo ai tanti dialoghi del film. Come se non bastasse, a minare l’esperienza ci pensa anche il pesante impiego del de-aging. Per quanto abbia raggiunto risultati sorprendenti, questa tecnologia presenta ancora grossi limiti, soprattutto quando i protagonisti si avvicinano a favore di camera.
Vista la natura di racconto ad ampio respiro, che attraversa periodi chiave della storia americana, nasce spontaneo anche il confronto con il più celebre lavoro firmato da Zemeckis e Roth, Forrest Gump. Ebbene, Here si distingue per il suo approccio più intimo e realistico alla materia, presentando le cronache di individui comuni e non di un sorprendente idiot savant, che spesso diventa, anche inconsapevolmente, protagonista della Storia con la “S” maiuscola. I grandi avvenimenti storici rimangono sullo sfondo, spesso annunciati alla radio (l’attacco di Pearl Harbor) o alla televisione (i Beatles all’Ed Sullivan Show, evento al centro anche del primo film di Zemeckis, 1964: Allarme a N.Y. Arrivano i Beatles!), mentre i personaggi sono intenti a fare tutt’altro. Sicuramente Here, grazie al suo approccio originale, riesce a distinguersi non solo dall’iconica pellicola degli anni ’90, ma anche da tanti altri film dal soggetto simile. Un’originalità, purtroppo, non priva di difetti, come abbiamo avuto modo di spiegare. Ma il più grave errore commesso dall’ultima fatica di Zemeckis è forse un altro: la quasi totale incapacità di emozionare davvero.