Dopo l’esordio del 2013 con Medeas, l’italiano Andrea Pallaoro torna dietro la macchina da presa con una protagonista d’eccezione: l’iconica Charlotte Rampling è al centro di un dramma sull’isolamento e sui tormenti interiori, sull’incapacità di accettare la realtà che ci circonda.
Hannah, il personaggio interpretato dalla Rampling che dà il titolo al film, è un’anziana signora che, in seguito all’arresto del marito, si vede costretta ad affrontare le conseguenze di un graduale crollo non solo familiare e sociale, ma anche – e soprattutto – emotivo e psicologico. Le giornate di Hannah sono pressoché tutte uguali: la donna si divide fra la cura del suo cane, il lavoro di cameriera presso una ricca famiglia e il corso di recitazione con un gruppo teatrale. A mano a mano la vediamo barcollare, perdere ogni consapevolezza della propria identità e della propria condizione sociale, fino a scivolare in una spirale di insicurezza e disperazione che la porterà a non riconoscersi più.
Charlotte Rampling è al centro di un dramma sull’isolamento e sui tormenti interiori, sull’incapacità di accettare la realtà che ci circonda
Pallaoro si pone nei confronti della precaria condizione di questa sventurata protagonista con ricercata attenzione e sensibilità. Il regista sembra prendere il personaggio per mano: la macchina da presa le sta pedissequamente addosso, seguendo ossessivamente le malinconiche giornate di una donna la cui fragilità emotiva le impedisce di confrontarsi con gli altri esseri umani e di sopportare le continue e asfissianti pressioni sociali.
Hannah recensione del film di Andrea Pallaoro con Charlotte Rampling
Hannah è un film che si regge essenzialmente sulla formidabile interpretazione e sulla decadente bellezza di Charlotte Rampling, intrappolata però in una messinscena asettica e statica che facilita il senso di straniamento di chi osserva rispetto al male di vivere che assilla e tormenta la protagonista.
Andrea Pallaoro cerca in tutti i modi di far percepire il dolore che affligge l’animo di Hannah, lavorando per sottrazione e optando per un approccio minimalista che sfortunatamente non riesce mai a rendere effettivamente percepibile il disfacimento interiore ed esteriore di una donna vittima del suo stesso senso di lealtà e devozione.
La linearità descrittiva e l’ingiustificato proposito di dissimulare la vera identità degli eventi narrati contribuiscono non solo al progressivo distaccamento di Hannah dalla sua esistenza (forte è in questo senso la metafora della balena spiaggiata, riflesso di qualcosa che sta per morire), ma anche all’inesorabile allontamento dello spettatore rispetto alla realtà e alla condizione che vengono rappresentate sullo schermo.
Un film ostico e impenetrabile, che camuffa una scarsità di idee e di immaginazione dietro una pretenziosa essenzialità scenica e narrativa
Hannah rinuncia alla narrazione tradizionale – quindi ai dialoghi e alle parole – per seguire un percorso orizzontale in cui l’immobilità di una donna intrappolata dalle proprie scelte di vita viene raccontata esclusivamente attraverso sguardi e silenzi, ritualità quotidiane e sporadici momenti di contenuta liberazione. Il risultato finale è un film ostico e impenetrabile, che camuffa una scarsità di idee e di immaginazione dietro una pretenziosa essenzialità scenica e narrativa.