Il successo planetario di Barbie è stata l’ennesima, plateale dimostrazione che se trattato in modo intelligente, con il giusto cast, la giusta regia e un marketing scaltro, un brand può trovare una seconda vita sul grande schermo, amplificando la propria portata e consolidando la sua posizione di mercato. In passato hanno avuto fortuna, solo per citare i più noti, la Lego, la Hasbro (Transformers, G.I. Joe) e la Capcom (Resident Evil). Non si può dunque essere prevenuti verso un film tratto dal più famoso videogame di auto al mondo, quel Gran Turismo che dal 1997 ha venduto oltre 90 milioni di copie diventando presenza fissa su tutte le PlayStation che si sono avvicendate nel corso degli ultimi vent’anni.
Sulla carta Gran Turismo – La storia di un sogno impossibile è, in effetti, un progetto interessante. A partire dalla storia, che prende spunto da fatti realmente accaduti: non tutti sanno che dal 2008 Nissan, PlayStation e Polyphony Digital (la società sviluppatrice del videogame) hanno creato la NISMO PlayStation® GT Academy, una competizione internazionale tra virtuale e reale che dà ai migliori giocatori di Gran Turismo la possibilità di gareggiare e provare a diventare piloti professionisti. Il protagonista del film, Jann Mardenborough (interpretato da Archie Madekwe), è realmente un pilota automobilistico britannico che, dopo aver vinto la GT Academy nel 2011, ha corso nella Super Formula e Super GT e partecipato tre volte alla 24 Ore di Le Mans, in Francia.
Trasformare un sogno folle in realtà
L’idea è dunque quella di mostrare come coraggio, determinazione e impegno possano trasformare un sogno folle in realtà, facendo di un ragazzino appassionato di videogame un pilota di auto da corsa. Al fianco del giovane Madekwe, due attori iconici e significativi per una generazione di giovani e un po’ meno giovani cresciuti a pane, Pirati dei Caraibi e Stranger Things: Orlando Bloom e David Harbour. Sempre sulla carta, figurano una serie di altri elementi di attrazione e potenziale successo: una bella colonna sonora transgenerazionale che spazia dai Black Sabbath a Enya, da Iggy Pop a Tiësto; corse sfrenate di auto; un regista, Neill Blomkamp (autore del gioiello sci-fi District 9), dinamico e perfettamente a suo agio con realtà virtuale e scenari impossibili.
Ed è proprio questa la prima nota dolente di Gran Turismo, la regia. Sin dai primi minuti appare evidente una piattezza nella messa in scena disarmante: la narrazione così come la presenza scenica degli attori, i dialoghi, il montaggio, tutto pare imbastito come il più noioso compito in classe, senza ritmo, verve, carattere. Un incipit che pare uno spot pubblicitario (tutto il film lo è, ma dichiararlo apertamente non è una mossa saggia) cede il passo a un Orlando Bloom decisamente poco convinto e convincente, proseguendo verso un susseguirsi di passaggi statici e prevedibili.
Riabilitare la funzione sociale dei videogame
A metà proiezione, quando il primo arco narrativo è praticamente concluso, ci si inizia a domandare se il film decollerà mai. Spoiler: no. I 134 minuti di durata scorrono così lentamente tra inquadrature insistenti sui loghi Nissan e PlayStation, giapponesi silenti che paiono controfigure, altalenanti vicissitudini di un protagonista che suscita poca empatia, agonismo sportivo di bassa lega e una storia senza morale. Quello che in principio sembra essere un racconto di formazione e riscatto, infatti, si dimostra essere una sorta di riabilitazione della funzione sociale dei videogame, trampolino di lancio virtuale per sperare di avere successo nella vita reale (Morandi avrebbe dovuto cantare “uno su 90.000 ce la fa”, quanti erano i candidati che Mardenborough batté nel 2011).
Un messaggio che arriva con quindici anni di ritardo: primo perché il mondo è pieno di youtuber e creator che hanno costruito la propria fortuna partendo da un contesto virtuale; secondo perché se nel 2008, quando è stata lanciata la GT Academy, poteva avere senso sdoganare il concetto di videogame tanto perfetti da essere reali, nel 2023 risulta anacronistico, essendo le barriere tra reale e virtuale quasi del tutto cadute – basti pensare a motori grafici iperrealistici ottimi sia per i videogiochi che per il cinema (Unreal Engine) o a visori a realtà aumentata. Il futuro è già qui ma né Sony né Blomkamp sembrano essersene accorti. Anche sul fronte della resa estetica, la produzione fa del suo meglio per confezionare con “soli” 60 milioni di dollari un film visivamente convincente, e in parte ci riesce, tra bolidi sfreccianti, droni e qualche animazione futuribile.
Purtroppo il confronto con tanti film analoghi che fanno di gran lunga meglio in termini di spettacolarità e intrattenimento è schiacciante – basti pensare a Ready Player One di Spielberg, Speed Racer delle sorelle Wachowski o a qualsiasi Fast & Furious antecedente l’ottavo capitolo. Alla fine della proiezione, quando sui titoli di coda scorrono le immagini del vero Mardenborough, l’effetto è straniante: il film di Blomkamp è talmente privo di anima da sembrare impossibile che sia tratto da una storia reale.