Anche il terreno più arido può nascondere inestimabili tesori. La riflessione di Gold, lungometraggio australiano in uscita nelle sale il 30 giugno, verte sulle implicazioni morali che seguono tale (ovvia) presa di coscienza. La strenua lotta del protagonista, impegnato a sorvegliare una gigantesca pepita d’oro incastrata nella dura terra, rivela da subito i propri contorni metaforici, con l’implicito intento di indurre lo spettatore a ricercare sé stesso e le proprie umane debolezze negli esili e spesso sconnessi avvenimenti che si susseguono sullo schermo.
In un futuro imprecisato, due esponenti di un’umanità in preda alla povertà e (si suppone) ormai prossima all’estinzione, scoprono – del tutto casualmente, nel bel mezzo di un deserto popolato da minacciose fiere selvatiche – un enorme e inamovibile masso dorato. I due disperati escogitano un piano: uno resterà a guardia del tesoro, esposto ad intemperie e pericoli di vario genere, in attesa che l’altro rintracci (non si sa come né dove) una salvifica escavatrice. La trama di Gold si esaurisce, quasi completamente, nella stessa premessa del film: gli eventi che seguono, oltre ad essere pochi, sono prevedibili sin dal principio.
Anthony Hayes, che qui veste il triplice ruolo di sceneggiatore, regista e attore (è lui l’uomo che fugge chissà dove, lasciando l’altro poveraccio alle prese con la natura ostile), sembra ambire ad un’opera concettuale, in cui la singola situazione descritta non abbia altre funzioni se non quella di fungere da pretesto per parlare d’altro. I due personaggi, a riprova di ciò, sono nullatenenti da qualsiasi punto di vista, sia diegetico che extra-diegetico: avendoli privati di un nome e di una storia, gli autori del film rinunciano deliberatamente alla possibilità di generare immedesimazione (o quantomeno una vaga forma di partecipazione) nello spettatore.
Lo scopo di creare una situazione archetipica è dunque palese nella sua forzatura, quasi che i due sceneggiatori (l’altra è Polly Smyth, consorte dello stesso Hayes) si fossero seduti ad un tavolo decisi a scrivere un film genericamente incentrato sul tema dell’avidità, pur non avendo in mente una storia vera e propria a cui affidarsi. L’estrema banalizzazione della classica situazione cane-mangia-cane si unisce ad una cinematografia fortemente estetizzante; non potendo contare su grandi appigli narrativi, il ricorso ininterrotto ad una fotografia color seppia e l’impiego insistito di campi lunghi, a ribadire l’insignificanza delle beghe umane rispetto alla crudeltà della natura selvaggia, appaiono quindi fini a sé stessi.
In altri termini, l’estetica svuotata di contenuto, per quanto gradevole agli occhi, difficilmente sarà in grado di smuovere qualche coscienza (e comunque non in questo caso). Soprattutto se si intuisce, assistendo allo spettacolo, un certo autocompiacimento da parte di chi sta dietro la macchina da presa; in certi momenti, Hayes sembra darsi da solo una pacca sulla spalla, crogiolandosi nella sua personale idea di film d’autore, che in quanto tale – visto che qui si procede per luoghi comuni – deve necessariamente prevedere un ritmo lento e contemplativo.
Oltre alla pazienza dello spettatore, ad essere messe alla prova sono anche le indubbie doti dell’attore principale: Zac Efron, che interpreta lo sciagurato a guardia del malloppo, fa del suo meglio con i mezzi che ha, portando a casa una performance – nonostante tutto – eccezionale. Ai molti che, fuorviati dalla presenza del divo hollywoodiano, si ritroveranno di fronte ad un’opera ben diversa da quello che si aspettavano, non resterà che riconoscere la bravura dell’interprete. L’attore sostiene, da solo, l’intera impalcatura di Gold e riesce a svincolarsi dai vecchi ruoli, che relegavano il suo talento all’attenzione di un pubblico composto quasi esclusivamente da ex teenager. La prova di Efron è intensa, dolorosa, efficace e si configura come l’unico elemento del film in grado di destare interesse nel pubblico.
L’esilità della trama, infatti, avrebbe potuto essere bilanciata da uno studio sui personaggi e sulle loro rispettive motivazioni; ma anche qui, Gold tradisce tutte le sue fragilità, scegliendo di bypassare qualsiasi approfondimento in tal senso. Tutto sommato, quindi, il risultato è pacchiano: Gold presenta tutti i topoi del filone survival, che però viene spogliato tanto della tensione che lo contraddistingue quanto dell’elemento empatico utile a dare tridimensionalità ai personaggi, a vantaggio di un moralismo strisciante, quasi si volesse insegnare a chi guarda come deve stare al mondo.
Il film appare “monco”, mostrandosi come una sorta di canovaccio ottimo in teoria ma ancora non adeguatamente sviluppato sulla carta. Aspettarsi da Gold qualcosa in più di quanto esso ci promette sin dalle prime sequenze ci condurrebbe, con tutta probabilità, a riflettere sui massimi sistemi, senza essere infine ripagati del calvario che ci siamo imposti di subìre (unica scelta che ci accomuna ai personaggi principali). Preso atto di ciò, non possiamo fare altro che fermarci alla superficie di questo film, senza sforzarci troppo di reperire una metaforica e inutile trivella.