Se guardi troppo a lungo nell’abisso, l’abisso finirà per scrutare dentro di te. Mai come nel film Gli occhi del diavolo la parafrasi della filosofia di Nietzsche è in grado di descrivere nel dettaglio cosa accade alla novizia Suor Ann, che diventa oggetto delle attenzioni (moleste e pericolose) niente meno che del diavolo in persona, intenzionato a tutti i costi a possedere la sua anima. Il film di Daniel Stamm, che arriverà nelle sale dal 24 novembre, costituisce una variazione su un tema quanto mai classico e convenzionale nella narrativa mainstream audiovisiva: l’orrore legato alla possessione, declinato in ogni possibile sfumatura.
Secondo i recenti rapporti del Vaticano, negli ultimi anni i casi di possessione demoniaca sono aumentati in modo significativo. Per preparare i sacerdoti a fronteggiare il Male, la Chiesa Cattolica ha riaperto segretamente le scuole di esorcismo, dove è ambientato il film. Proprio in una di queste scuole la giovane Suor Ann crede fortemente che compiere esorcismi sia la sua vocazione, sebbene siano autorizzati solo i sacerdoti ad eseguirli: ma uno dei professori percepisce il dono speciale della donna e le consente di essere la prima suora a studiare e ad assistere al rituale. Eppure, dopo aver visto negli occhi il Diavolo, Suor Ann capirà che la sua anima e la sua stessa vita sono in grave pericolo poiché le forze demoniache che combatte sono strettamente connesse con il suo passato tormentato.
Gli occhi del diavolo tenta di costituire un unicum, quasi un caso di studi perché arriva sugli schermi “fuori tempo massimo” rispetto alla ricca – e nutrita – tradizione di questo sottogenere horror: un filone che ha avuto inizio negli anni ‘70, grazie all’inaspettato e scandalo successo di William Friedkin con , e ha raggiunto il proprio acme negli anni ‘90. C’è una spiegazione dietro questo fenomeno, ed è di natura socio-antropologica e non solo commerciale: attraverso l’orrore mistico, gli Stati Uniti (in particolare) hanno cercato di analizzare ed esorcizzare le proprie paure recondite, ma anche il proprio spirito permeato da una forte religiosità. Negli anni ‘90 il nemico era esterno, “altro”, lontano dalla sicurezza della madrepatria: si annidava tanto negli alieni quanto nel diavolo e nelle sue legioni di demoni.
Come il volto dell’orrore è cambiato con lo scorrere degli anni, così anche l’interesse per quest’ultimo si è evoluto con i costumi degli americani, fino a perdere quell’interesse spasmodico cresciuto fino agli anni 2000. Con un mercato audiovisivo costellato di piccole eccezioni, si arriva fino a Gli occhi del diavolo, nel quale il classico tema dell’esorcismo e della possessione viene affrontato da un punto di vista inedito – prettamente femminile – e con atteggiamento razionalista: Suor Ann cerca di avvicinarsi ai posseduti come farebbe uno psicoanalista con un paziente, analizzando le fragilità delle vittime che si annidano nascoste tra gli angoli più reconditi della vergogna, nel pozzo senza fondo dell’inconscio.
Ambizioni troppo elaborate per un prodotto mainstream
Secondo la versione di Stamm, per sconfiggere il diavolo – e batterlo al suo stesso gioco – è necessaria la serietà scientifica ed analitica che si matura in una scuola per esorcismi. Ed ecco quindi che le libertà narrative iniziano a muoversi lungo le traiettorie dell’improbabilità, dell’inverosimile che può esistere solo all’interno della cornice hollywoodiana, delle situazioni paradossali finalizzate al puro intrattenimento; Gli occhi del diavolo è concettualmente figlio dei nostri tempi odierni, dell’empowerment femminile (ad ogni costo) e di una focalizzazione che si sposta sempre più su una figura protagonista che, un tempo, finiva per coincidere con la Scream Queen di turno, mentre oggi è simbolo di indipendenza e fragilità, natura coriacea e istinto materno, donna e uomo: non è un caso che Suor Ann sia l’unica donna ad essere ammessa al corso sugli esorcismi, come pure il suo indossare abiti maschili per combattere il diavolo.
Ma tutta questa realtà che fa irruzione, con veemenza, nello storytelling di genere che si vuole creare sullo schermo finisce per rendere il ritmo de Gli occhi dei diavolo altalenante e caotico, frutto di ambizioni troppo elaborate per un prodotto mainstream destinato al grande pubblico. La protagonista dal passato tormentato si configura più come una cacciatrice che una suora, in grado di salvarsi da sola perfino dalle situazioni più pericolose, pronta a difendersi dai tranelli del maligno: ma, come sono lontani i tempi de L’esorcista (con la sua indagine sottile sull’orrore invisibile della natura umana), così sembrano lontanissimi i tempi di una “ammazza-vampiri” come Buffy, quando il genere teen e l’horror raccontavano le difficoltà terribili dell’adolescenza attraverso una grande metafora.
Gli occhi del diavolo riprende un sottogenere di successo tentando di aggiornarlo al presente, forzando le chiavi di lettura e di interpretazione, finendo per perdere completamente di vista il puro piacere della visione. Dell’orrore rimane traccia solo in qualche jumpscare ben congegnato ma abbastanza prevedibile, figlio di una pianificazione a tavolino sia stilistica che tematica; il resto è una pigra variazione su un tema ormai parte di un immaginario collettivo consolidato, ma pur sempre in cerca di nuovi stimoli e brividi di cui nutrirsi.