Benché possa piacere o meno il suo cinema, Gabriele Muccino non può non essere annoverato tra i migliori registi italiani della sua generazione. Non si vuole in questo caso disquisire della qualità intrinseca dei suoi film, bensì delle indubbie (e comprovate, a parere di chi scrive) capacità del regista romano a raccontare storie e a descrivere personaggi. Fin dai suoi esordi, Muccino si è discostato da quell’immagine di autore integerrimo che ha contraddistinto invece altri suoi colleghi (quasi coetanei): Matteo Garrone e Paolo Sorrentino. Ha invece perseguito un’idea di “cinema popolare” (nel senso più nobile del termine) capace di catturare l’interesse di un pubblico ampio; ed ha sopratutto incentrato la sua carriera (italiana) sull’osservazione (tanto comprensiva quanto disillusa) degli appartenenti alla sua generazione. Da questo punto di vista, Gli Anni Più Belli si inserisce pienamente nella filmografia del suo regista, nonostante sia forse una delle sue opere più deludenti.
Superati ormai i 50 anni, Gabriele Muccino si volge indietro a rivalutare la sua storia e quella dei suoi coetanei. Sembrano ormai lontani i tempi in cui era possibile anche solo provare il sentimento di rivoluzionare la propria vita o quantomeno riuscire a trovare un’evasione dal tran tran di tutti i giorni, magari grazie a un’amante occasionale (L’Ultimo Bacio). Oggi, i personaggi di Muccino (dei veri e propri tipi) sono cresciuti, o meglio, sono invecchiati e devono fare i conti con il tempo che passa inesorabile; e con esso, anche con i propri sogni mai realizzati, le proprie ambizioni tradite, ecc.
Giulio, Paolo, Riccardo e Gemma sono amici fin da ragazzi. Vivono insieme gli anni turbolenti dell’adolescenza (negli anni ’70) finché per un motivo o per l’altro si separano e percorrono strade molto diverse tra loro: Giulio (Pierfrancesco Favino), di bassa estrazione sociale, si riscatta diventando avvocato e sposando la figlia (Nicoletta Romanoff) di un’importante politico; Paolo (Kim Rossi Stuart) riesce a diventare professore di lettere dopo anni di precariato; Riccardo (Claudio Santamaria) si sposa con Anna (Emma Marrone) e cerca di sfondare nel mondo del cinema; Gemma (Micaela Ramazzotti), la più sfortunata dei quattro, è costretta confrontarsi con una vita ricca di poche soddisfazioni. Si ritroveranno, e sarà l’occasione per tirare le somme delle loro (complicate) vite.
Gli Anni Più Belli di Gabriele Muccino è una sorta di remake, o di aggiornamento, di un classico del cinema italiano: C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Il debito nei confronti del capolavoro interpretato, tra gli altri, da Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Stefania Sandrelli, è piuttosto evidente, e riguarda sia la storia in sé che la descrizione dei personaggi. Basti pensare alla parabola sociale ascendente di Giulio, alla sua perdita di “umanità” e innocenza, al suo cedere al vile danaro, per certi versi molto simile a quella del personaggio interpretato da Gassman nel film di Scola (è solo un esempio, ma se ne potrebbero fare tanti altri).
Benché impietoso, il paragone tra i due film è purtroppo doveroso, così come a suo tempo lo fu quello tra La grande bellezza di Sorrentino e La dolce vita di Federico Fellini. C’eravamo tanto amati poneva al centro del racconto una generazione che era nata sotto il regime fascista ed era diventata adulta durante la Seconda Guerra Mondiale, vivendo da protagonista gli anni cruciali di quello che lo storico Eric Hobsbawn ha definito il “Secolo Breve“: il dopoguerra, naturalmente, con il boom economico; gli anni della DC al potere e delle perenni lotte rosse; le rivolte studentesche e dei lavoratori; la disillusione degli anni ’70, che segnarono un triste ritorno alla “normalità” e un abbandono delle aspirazioni di una generazione.
I personaggi raccontati da Muccino, invece, hanno a che fare con un tempo storico decisamente meno denso di avvenimenti cruciali. Inoltre, il legame tra storie private dei protagonisti e Storia è affrontato in modo troppo schematico per far sì che Gli Anni Più Belli possa essere considerato una sorta di resoconto dei sogni e delle illusioni dei “figli” degli italiani raccontati da Scola nel suo film. Giulio, Paolo e Riccardo crescono durante gli anni di Piombo – e si può dire che la loro amicizia nasca proprio in quel contesto -, ma la realtà all’interno della quale si districano le loro esistenze si riduce a una serie di “macchiette storiche” un po’ posticce: il clima eccitato che contraddistinse le “notti magiche” di Italia ’90, l’inchiesta di Mani Pulite, il passaggio dal vecchio al nuovo millennio (il 2000) e via dicendo.
Ma c’è anche un ulteriore aspetto che compromette la riuscita de Gli Anni Più Belli e non si tratta della poco incisiva sceneggiatura, o della pochezza dei dialoghi, o magari dei giovani interpreti dei protagonisti da giovani (ahinoi, non se ne salva uno), o ancora della latente misoginia che fa capolino troppo spesso durante il corso della narrazione (e riguarda principalmente il personaggio di Gemma), ma di un elemento essenziale per la riuscita di un film che vuole raccontare una vicenda che si dipana lungo l’arco di 40 anni: il “senso del tempo“. Durante la visione, lo spettatore non è mai assalito dall’insopportabile peso del tempo che scorre inesorabile, dalla sua ineluttabilità, dalla sua “crudeltà” nei confronti dei personaggi, trottole impazzite a cui la vita ha concesso davvero poco, forse esclusivamente rimpianti.
E alla fine, Gli Anni Più Belli appare un film schiacciato sotto il peso di un’ambizione abbandonata un po’ a se stessa; un’ambizione mai coltivata sia dal punto di vista della scrittura che dal punto di vista della resa scenica. E forse per la prima volta in un film di Muccino anche gli attori – oltretutto tra i migliori nel panorama del cinema italiano – sembrano sottotono, incapaci di dare spessore a personaggi così piatti e superficiali da risultare delle vere e proprie macchiette.