È innegabile che Split, il film di M. Night Shyamalan uscito nel 2016, abbia conferito nuovo smalto alla filmografia del regista indiano. Reduce da una serie di lavori che non hanno fatto altro che inasprire ancora di più il giudizio di pubblico e critica nei suoi confronti, Shyamalan ha voluto ricollegarsi direttamente al periodo forse più felice della sua carriera, quello degli esordi, quando titoli come The Sixth Sense, Signs e The Village lo avevano eletto a gran voce come il nuovo maestro della suspense e, soprattutto, del plot twist.
In che modo il regista è riuscito a mettere in pratica questa volontà? Con un vero e proprio colpo da maestro, ossia rivelando nel finale del film con protagonista James McAvoy – attraverso l’apparizione di Bruce Willis nelle vesti di David Dunn – che la pellicola in questione era direttamente collegata ad Unbreakable – Il predestinato, secondo titolo della filmografia di Shyamalan, uscito nel lontano 2000, ben 16 anni prima.
Alcuni mesi dopo l’uscita nelle sale di Split, l’annuncio ufficiale (non più così inaspettato) di Glass, pellicola che avrebbe ufficialmente chiuso la trilogia supereroistica iniziata nel lontano 2000 con Unbreakable: un sequel a tutti gli effetti di entrambe le pellicole, che avrebbe dunque riunito per la prima volta – come nel più famigerato dei crossover – personaggi e storie già note al grande pubblico, in particolar modo ai fan del regista indiano.
Riprendendo la filosofia alla base di Unbreakable, Shyamalan torna a parlare allo spettatore di un universo popolato da persone alla ricerca di se stesse e del loro posto nel mondo, considerate dagli altri come degli “errori della natura”, ma che in realtà sono soltato l’altra faccia della medaglia, una faccia che non vorremmo mai venisse svelata per evitare di sovvertire il naturale ordine delle cose.
La visione che il regista indiano ha dei supereroi e del loro universo è sicuramente autoriale, lontana dalle ideologie alla base del successo di macchine da soldi come la Marvel o la DC: ciò che conta per Shyamalan non è l’azione, non è ciò che i suoi personaggi compiono o dimostrano di sapere fare, ma è piuttosto la psicologia che si nasconde dietro le loro convinzioni e motivazioni, e che di conseguenza ne regola e determina i comportamenti.
Nessuna spettacolarizzazione del supereroe, dell’uomo fuori dal comune, ma piuttosto un’ibrida commistione di toni, atmosfere e stili registici che si rifanno tanto al film del 2016 quanto a quello uscito nel lontano 2000, con il preciso obiettivo di valorizzare, non solo attraverso il dialogo (spesso esorbitante), ma anche attraverso la costruzione dell’inquadratura (sempre affascinante), le emozioni constrastanti dei protagonisti.
Glass è una macchinosa apologia sulla cultura fumettistica e sul bisogno incessante di M. Night Shyamalan di dare per certo che al mondo esistono persone “diverse”, persone superdotate, persone ciecamente convinvente di poter innescare una rivoluzione, non interessate tanto all’epico scontro finale (buoni contro cattivi), quanto piuttosto alla divulgazione del loro stato di alterità, in un mondo di miscredenti pronti a bollare attraverso l’incredulità qualsiasi forma di delirio di onnipotenza (o presunta tale).
Tanto intrigante e ambizioso nelle premesse quanto contorto nel suo effettivo sviluppo, Glass (qui il trailer italiano ufficiale) risulta una macchina non ben oliata, che indubbiamente pone lo spettatore di fronte ad una serie di considerazioni fondamentali in merito alla poetica e alla visione del mondo di Shyamalan. Nel corso dei tre atti del film, è lo stesso regista però a dimostrare di non saper sempre maneggiare con cura la materia (soprattutto nella parte centrale, la più appesantita, verbosa e ripetitiva), lasciando come imponente e incredulo lo spettatore, in un sottilissimo gioco tra realtà e illusione destinato a generare più domande che risposte.