Se talvolta, fra una corsa e un tuffo in acqua, dovesse aggredirvi l’affanno del domani, l’improvvisa sensazione che la vista, il corpo, l’immaginazione e l’avventatezza nel cadere sotto i colpi di Afrodite non siano più radiosi come un tempo, per sollevarvi basterà pensare ai pomeriggi della preadolescenza, quando si era ancora in grado di comprendere che in una stanza vuota non si è mai davvero soli e raggiungere isole remote, incastonate tra il sonno e la veglia, dove i cari che ci hanno lasciato si destano di colpo nell’istante stesso in cui li ricordiamo, non costava che un piccolo sforzo. Nella storia del cinema vi sono capolavori (es. Peter Ibbetson, La brezza argentata, Marianne de ma jeunesse, Il posto delle fragole) che, in tal senso, offrono un aiuto e un esempio inestimabili: Summerland (“Giorni d’estate”, più debolmente in italiano), dal 25 agosto in sala con Movies Inspired, non li eguaglia di certo ma si ritaglia, comunque, uno spazio di assoluto decoro.
Che gioia, che gradita sorpresa “incontrare” verso la fine dell’estate, quando la programmazione di solito langue, l’opera d’esordio di Jessica Swale! Al punto che ci sentiamo di inserirla, accanto a True mothers, Illusioni perdute, Il male non esiste e Hope, fra le più interessanti viste (finora) nel 2022. Classe ’82, nativa di Reading (Berkshire), eclettica regista teatrale e persino autrice di albi illustrati per l’infanzia, questa risoluta e insieme delicatissima personalità guarda con nostalgia, senza farsene inghiottire, a certi visionari melodrammi della Hollywood Classica – si vedano in particolare Le bianche scogliere di Dover (’44) per l’ambientazione e Fuga nel tempo (‘48) per l’originale commistione di amorosa fantasia e cupo realismo dello sfondo bellico – nel generoso intento di “risvegliare”, di lasciar soffiare sulla messa in scena la bonaccia “incerta”, quasi ultraterrena, tipica del periodo e delle feconde suggestioni europee che lo innervarono.
Esclusi prologo e conclusione, calati nel 1975, la vicenda si dipana nell’agosto del ‘40. Alice Lamb (Gemma Arterton da giovane, Penelope Wilton da anziana) non è un agnellino, checché ne suggerisca il cognome: orgogliosa, colta, scostante, ha lasciato Londra (delusa dal suo “cavaliere”, che non si presentò al ballo nonostante l’impegno sul carnet, ma forse c’è dell’altro: lo spettatore lo intuirà indizio dopo indizio) per una cittadina marittima del Kent, “rinchiudendosi” in un minuscolo cottage lungo la costa, nel proprio animo, nelle singolari ricerche di mitografia e botanica che conduce. Non ha bisogno di nessuno, nessuno vuol vedere. La Storia è tuttavia più forte, più veloce di ogni individuo, specialmente con colui (o colei) che si picca di non compromettersi con essa in alcun modo, ad alcun livello. Tocca, perciò, alla nostra. Il governo britannico sta sfollando nell’entroterra bambini abbandonati o rimasti orfani a seguito dei bombardamenti sulla capitale: Alice dovrà ospitarne uno, Frank (Lucas Bond, c’è qualcosa in lui del compianto Anton Yelchin). «Ognuno di noi deve fare la sua parte per la patria» borbotta saccente Mrs. Corey (Siân Phillips) e Mr. Sullivan (Tom Courtenay), timido direttore di un collegio, la segue a ruota. Non resta che accettare, “ereditare” le conseguenze di un orrore inutile, la guerra, di cui Alice rifiuta la retorica e i presunti valori. Al di là dell’ingenua fascinazione che prova verso l’aviazione e l’eroismo nei cieli (il padre è lassù), neppure il giovane Frank, va detto, ha voluto tutto ciò. Non ha colpe. Non ancora, perlomeno.
Da principio la convivenza è urtante (la donna ama il silenzio e i discorsi logici, il ragazzino, com’è giusto, il gioco e le storielle buffe), senza contare che tutti (o quasi) in paese, fra i quali Edie (l’espressiva Dixie Egerickx), coetanea e compagna di banco di Frank, considerano Alice Lamb… una strega. Se state pensando a Pomi d’ottone e manici di scopa (’71) non è così sbagliato. Ma la “magia” di Summerland è un pochino diversa. Nessuna tiritera in latino o “fegato di drago avvelenato” bensì raffigurazioni di esseri incantati del folklore sassone, antiche carte geografiche, polverosi tomi di Storia Naturale, campanelle a vento, ammoniti fossili e raffinate composizioni di lunaria essiccata.
Sarà proprio il “gabinetto delle curiosità” appena descritto, fragile angolo di bellezza, a far sbocciare tra i due l’amicizia, incoraggiandoli come mai è stato loro concesso da questo iniquo mondo ad alzare lo sguardo fin sopra le nubi, in attesa che prenda forma il Miraggio della Fata Morgana: “addomesticato” da Alice come curioso fenomeno atmosferico, per Frank sarebbe, invece, uno degli infiniti modi con cui la “Terra d’Estate” (è il titolo dell’opera) offre ai mortali giusti un fulmineo, irripetibile spiraglio d’accesso, come pure avviene nella “Terra di Mar” dei racconti di Merivel (Robert Downey Jr.) dal film Restoration (’95): «Al di là dell’oceano, nella Terra di Mar, c’è una vallata dove sono riposte tutte le cose perdute del mondo. Reami, ricchezze, ore, affetti… Gli uomini vi mettono piede per ritentare gesta mancate, ritrovare il senno, i propri smarriti ingegni… meravigliandosi di riuscirvi. Non li avevano persi veramente, ma non se n’erano mai accorti».
Non abitiamo, purtroppo, quella magica plaga e l’amore, oggi come in passato, non osa ancora dire il suo nome (anch’essa abbandonata da un “cavaliere” nella stessa sera, Vera (Gugu Mbatha-Raw) visse con Alice una fulgida quanto tormentata passione) ma Dike / Giustizia agisce su tempi diversi da quelli umani e trionfa nei modi più inattesi… ciò sussurra la fiaba profondamente, sorprendentemente pagana della Swale chiamando il pubblico a commuoversi, a percorrere al suo fianco questo ventoso eppure carezzevole sentiero filmico di iniziazione all’età adulta; grazie alle scene di Christina Moore (Killing Me Softly) e alle abbacinanti immagini di Laurie Rose (Rebecca) i fortunali, i crepuscoli, i promontori dell’East Sussex, la sagoma del Castello di Dover e i molti dettagli (debitori delle tavole di Frederick Barnard per la raccolta Sunlight and Shade [1883] e, in parte, di quelle “naturali” di Maria Sibylla Merian), interni ed esterni, letteralmente “palpitano”, respirano come se vi abitasse un dio e dalle labbra della simpatica coppia di protagonisti, novelli Lancillotto e Viviana, esce infine una semplice ma tutt’altro che scontata riflessione sul Mito come fondamento dell’esistenza, perché è in Esso che “avviene la liberazione dall’ego. La vita ha bisogno del mito come sortita e proiezione, accesso al piano superiore, pietra di paragone, stella di orientamento. Il mito è la vita vista dall’alto” (M. Veneziani).
Per un confronto, oltre ai classici menzionati, invitiamo i lettori a riscoprire: Paradise (’91) di Mary Agnes Donaghue, Il segreto dell’isola di Roan (’94) di John Sayles e Cuori in Atlantide (2001) di Scott Hicks.