Ci voleva un gran coraggio a portare sullo schermo Ghost in the Shell, capolavoro di Masamune Shirow, bibbia cyberpunk e connubio perfetto tra “ghost” anima e “shell” corpo meccanico. E va dato atto al regista Rupert Sanders (Biancaneve e il Cacciatore) di averci quanto meno provato, confezionando tutto sommato un buon prodotto che deve molto al suo predecessore Mamoru Oshii, che aveva adattato il manga con due ottimi anime nel 1995 e nel 2004.
La storia, quindi, è molto simile: in un futuro alla “Blade Runner”, il maggiore “Major” Mira Killian, un cyborg con un cervello umano comanda la Task Force Section 9 facente parte dell’organizzazione Hanka Robotics, che ha il compito di combattere il terrorismo cibernetico. Major è un unicum nel suo genere, una macchina perfetta creata in laboratorio che nasconde dei segreti dietro la propria costruzione. Mentre la Dection 9 è impegnata a scovare un pericoloso criminale che cerca di sabotare la Hanka Robotics, Mira Killian scoprirà la verità sul proprio passato.
A 13 anni di distanza dall’ultimo anime, questo Ghost in the Shell versione live action impressiona per l’accuratezza nei dettagli dell’universo cyberpunk, rifacendoci vivere in un sol colpo le atmosfere che avevano caratterizzato pellicole cult come Blade RunnereMatrix.
La parola d’ordine è fedeltà all’immaginario otaku (i fan di fumetti e videogiochi): lasciando perdere le puerili critiche rivolte all’interpretazione di un personaggio asiatico da parte di un’attrice occidentale, il film si concentra sul non deludere nessuno. La pellicola di Rupert Sanders coinvolge mescolando sagacemente azione e introspezione tenendo sempre alto il livello di attenzione.
Il film ha anche il pregio di avvalersi di un buon cast: a dare il volto all’eroina di New Port City è Scarlett Johansson, che si cala perfettamente nel ruolo di intelligenza umana in un corpo meccanico; oltre all’attrice americana, figurano anche due star internazionali che danno lustro alla pellicola, ossia il grandissimo Takeshi “Beat” Kitano nel ruolo di Daisuke Aramaki e il premio Oscar Juliette Binoche che interpreta la Dottoressa Ouelet.
Tuttavia, Ghost in the Shell non riesce a colmare quel divario con i grandi capolavori del genere, risultando troppo ancorato ai suoi predecessori nipponici. Se da un lato la scelta risulta vincente per quanto riguarda le ambientazioni, dall’altro lato ci saremmo aspettati un’audacia maggiore in un’opera complessa che riporta al suo interno riflessioni filosofico-religiose su un nuovo stadio dell’evoluzione umana.
E invece il film scorre semplicemente liscio come l’olio per quasi due ore, per poi finire lasciandoci nella sala senza un dialogo degno di nota o una scena che entrerà nell’immaginario collettivo. In una battuta, questo lavoro di Rupert Sanders si potrebbe liquidare come più “shell” (corpo/involucro) che “ghost” (anima).