È impensabile che Furiosa: A Mad Max Saga non venga visto da tutti quegli spettatori (probabilmente la maggior parte) folgorati da Mad Max: Fury Road, uscito nelle sale quasi dieci anni fa. Impensabile perché il ritorno nelle Terre Desolate dopo la trilogia originale fu una folgorazione collettiva, uno slancio d’autore in grado di creare un solco sul linguaggio cinematografico tuttora eccezionale, mai seguito da altri titoli. Una macchina con un motore V8 che, da sola, si lancia a tutta velocità su di una strada deserta.
George Miller è il primo ad essere consapevole della portata del titolo che ha creato e dunque per il suo Furiosa: A Mad Max Saga (prequel di Fury Road nonché quinto capitolo del franchise australiano più importante della storia del cinema) ha optato per un approccio drastico in modo da disattendere aspettative, credenze e analisi, realizzando un film al contrario rispetto al precedente e legandolo in modo indissolubile ad esso e all’universo originale, allargandolo ulteriormente.
Presentato fuori concorso al 77° del Festival di Cannes, Furiosa è una pellicola di world building, di scrittura, di lavoro sulla dilatazione temporale e di caratterizzazione, come testimoniano un Chris Hemsworth alla prova più impegnata della sua carriera e una Anya Taylor-Joy chiamata ad un’interpretazione soprattutto di presenza. Entrambi non sempre centrati, soprattutto la giovane attrice, nonostante le intenzioni iniziali, esempi involontari delle contraddizioni di un film che ribaltando le regole cerca una propria coerenza.
Dietro ogni blasfema c’è un giardino incantato
In mezzo al desertico inferno che è diventata la Terra esiste un luogo di abbondanza. Un Eden dove l’Eva bambina che coglie la mela non è vista come una peccatrice, ma come un angelo da proteggere, un bene prezioso da conservare. Lo sanno i membri (femminili) del luogo di abbondanza e anche i loschi figuri che la rapiscono per portarla da un signorotto della guerra appostato ad appena un giorno di viaggio, tale Dementus (Hemsworth), di nome e di fatto. Il primo dei ribaltamenti del film di Miller, che intorno ad essi si muove -non dimenticate che il nome della blasfema dal viso angelico è Furiosa (Taylor-Joy).
Così inizia l’odissea divisa in capitoli della bambina che diventerà una donna, stupenda in mezzo ai terribili uomini che abitano le Terre Desolate; sempre un fattore nelle guerre di conquista, nei trattati e nelle esecuzioni. Lei, vita piena in mezzo agli emivita. La storia della sua crescita diviene una storia di resistenza alla corruzione, di vendetta e di riscatto di una vita che le è stata sottratta e che non tornerà mai più a causa di un mondo che non ha più spazio per i giardini incantati, ma solo per La Cittadella, Bullet Farm e Gas Town, con i loro macchinari, il ferro, le ruote, la benzina e i proiettili.
Un mondo abitato da uomini come il suo rapitore, Immortan Joe (Lachy Hulme) e – quando si è fortunati – il Pretoriano Jack (Tom Burke), eco di Max Matto che si aggira per le dune chissà dove, preda dei suoi fantasmi. Un mondo oltre il mondo in cui le logiche sono però rimaste le stesse del passato e dove la sopraffazione, la guerra e l’egoismo sono all’ordine del giorno. Furiosa ha però con sé ancora qualcosa di quel giardino incantato custodito nel mezzo della sua folta chioma; una speranza per cambiare, anche un poco, il desertico inferno, a patto che la giovane decida di conservarla.
Il nuovo mondo nasce nelle strade
George Miller crea una pellicola di contestualizzazione, lasciando da parte il lavoro di rivoluzione sul linguaggio cinematografico, lo slancio d’autore e il volo di Icaro. Furiosa: A Mad Max Saga copre circa vent’anni e si concentra sulla costruzione di un’impalcatura solida, approfondendo ogni aspetto appena accennato nove anni fa. L’idea è quella di creare un contraltare a Mad Max: Fury Road, non solo in grado di dar vita ad una rottura, ma anche ad un’integrazione. Al centro c’è la resa visiva, sia delle scene in strada che nelle altre, che raccorda ciò che si è visto in precedenza puntando su un lavoro maggiormente di CGI, ma meno di impatto (nonostante le solite accelerazioni in montaggio e gli zoom improvvisi), e beneficiando di una cura importante nel particolareggiare ogni area di un deserto fatto di luoghi tutti differenti tra loro.
Motore del film rimane il rapporto tra le due velocità presenti nella narrazione. Il focus è infatti ancora quello di dar vita ad una pellicola che ha il suo centro nella creazione della tensione istantanea e vertiginosa e in cui i rapporti e gli sviluppi si formano nel mezzo dell’azione; d’altro canto, tutto viene inserito all’interno di un contesto temporalmente più dilatato. Delle corse folli in un quadro fisso. Ce lo dice la musica, carica di una tensione che però non arriva mai ad un climax risolutivo, tranne nel sottofinale, in cui si raggiunge un apice anche tematico come nel più classico dei western. Ecco, il western è il genere di riferimento di Miller: lo si percepisce nella gestione degli atti e soprattutto nella silente protagonista, catalizzatrice di una realtà che intorno a lei si trasforma, divenendo metafora della sua realtà interiore. I personaggi in generale si relazionano, come da tradizione, secondo duelli rusticani tra archetipi, simili, ma opposti.
La pecca più grande dell’operazione Furiosa sta nel non riuscire ad andare oltre le suggestioni e al suggerimento di una compiutezza, come invece pretenderebbero le sue intenzioni didascaliche (c’è un voice over a testimoniarlo), che necessiterebbero invece di un esaurimento immaginativo che non viene mai raggiunto a pieno, nonostante la parabola della sua protagonista si compia. Forse il problema sta nel suo “vivere in funzione di qualcos’altro” che è già negli occhi di chi guarda, riuscendo a trovare, malgrado gli sforzi, solo a tratti la via per un’emancipazione, comunque mai totale e risolutiva. Ma forse non era neanche l’intenzione del regista.