Freaks Out è il titolo del film che segna il ritorno, a distanza di due anni dal grandissimo successo di Lo Chiamavano Jeeg Robot, del regista Gabriele Mainetti dietro la macchina da presa. E questo atteso ritorno è sancito da un film a base di freaks, outsider circensi che si muovono sullo sfondo di un’Italia in guerra coinvolta negli epiloghi della Storia. Il lungometraggio, presentato in Concorso alla 78esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, vede protagonisti Aurora Giovinazzo (vista recentemente nello young adult Amazon Original Anni da cane), Claudio Santamaria, Pietro Castellitto (Speravo de morì prima), Giorgio Tirabassi e uscirà nelle sale il prossimo 28 ottobre.
Matilde, Cencio, Fulvio e Mario sono come fratelli quando il dramma della seconda guerra mondiale travolge Roma. Siamo nel ‘43, nel pieno del conflitto, e la città eterna ospita il Circo Mezzapiotta in cui lavorano i quattro. Ma quando Israel, il proprietario e padre putativo di tutti, scompare nel tentativo di aprire una via di fuga per tutti loro oltre oceano, i nostri quattro protagonisti si ritrovano completamente allo sbando. Senza qualcuno che li assista ma, soprattutto, senza il circo, hanno smarrito la loro collocazione sociale e l’identità, sentendosi solo dei fenomeni da baraccone “a piede libero” in una città in guerra.
Con Freaks Out, Mainetti supera a pieni voti il drammatico banco di prova del secondo film, dimostrando di poter applicare lo stesso schema produttivo-creativo dietro Lo Chiamavano Jeeg Robot anche ad un film che, già su carta, si configurava come un grande blockbuster italiano capace di echeggiare le opere immortali di grandi maestri della Settima Arte come Steven Spielberg o Guillermo del Toro. Sì, perché l’ultima fatica del regista romano è un’opera citazionista e derivativa, un centrifugato pop (e pulp) di generi, suggestioni e – ovviamente – citazioni: si va dalla sospensione dell’incredulità e il gusto per la minuziosa ricostruzione storica tipica dei grandi kolossal di Spielberg, passando per le atmosfere da fiaba steampunk dei film di del Toro fino al Neorealismo – magico e non – dei film italiani del dopoguerra (Roma città aperta, la produzione di De Sica) e infine l’epopea western dall’ampio respiro di Sergio Leone.
Freaks Out è una miscellanea calibrata di suggestioni e forme nella quale ogni dettaglio viene calcolato, al fine di arricchire l’esperienza dello spettatore (rigorosamente in sala) appagando le alte aspettative raggiunte dal piacere retinico. Gabriele Mainetti riconferma, ancora una volta, la sua maestria nel muovere la macchina da presa tra le pieghe dello spazio, del tempo e dei sentimenti umani; amore, odio, rabbia, paura vengono veicolate e trasformate in magma vivo ed incandescente capace di stimolare delle reazioni emotive nel pubblico, prendendolo per mano e conducendolo attraverso un viaggio che ha delle assonanze con un Mago di Oz weird, ribelle e grottesco, dove Matilde è una novella Dorothy che parte alla ricerca di casa sua in un viaggio attraverso l’autoconsapevolezza, compiuto lungo la strada gialla di mattoni e in compagnia di Fulvio (il leone), Cencio (l’uomo di latta) e Mario (lo spaventapasseri).
Israel, il direttore del circo novello mago di Oz, proprio come nel libro di L. Frank Baum è un uomo comune che si prodiga per aiutare i suoi figli adottivi, proteggendoli da un mondo esterno che non è pronto ad accettarli, ma che ne è allo stesso tempo attratto e sedotto, proprio come succede al folle tedesco Franz alla ricerca del proprio riscatto davanti agli occhi dell’intero Reich. Ogni elemento in Freaks Out contribuisce a creare una sequenza stratificata di immagini e di rimandi, dove niente è come sembra e ogni stimolo (visivo e contenutistico) è stato rielaborato da Mainetti (fin dalla fase di scrittura, insieme al sodale Nicola Guaglianone) per realizzare un film pulp, perché crocevia di generi e temi, complesso e immaginifico “pasticcio” dall’altissimo profilo e coadiuvato da immagini opulente e pirotecniche, capaci di trasportare il pubblico in un turbinio emotivo.
Ma c’è un pensiero sottile che attraversa la visione di Freaks Out, un dubbio che si insinua man mano che scorrono i 141 minuti del film: al di là della confezione impeccabile, delle immagini mozzafiato, del respiro ampio e internazionale; al di là perfino degli interpreti giusti al posto giusto, volti – e corpi – prima ancora che semplici attori, strumenti nelle mani di un demiurgo esterno capace di dirigerli sulla scena come protagonisti di un grande affresco corale; oltre tutto questo si avverte una sensazione laconica e sottile di mancanza.
Quel brivido che accoglie subito lo spettatore, pronto a sospendere la propria incredulità di fronte a questa “fiaba urbana per giovani adulti”, si trasforma in qualcos’altro, facendolo ritrovare all’improvviso spiazzato e smarrito tra le troppe immagini roboanti, sopraffatto dai suoni e dalle visioni, fagocitato da un immaginario fin troppo grande e ambizioso. Forse l’unico modo per superare questa sensazione – incrementata da una sceneggiatura che sembra pronta, in certi momenti, a sacrificare l’approfondimento psicologico e la profondità tridimensionale (ed emotiva) dei personaggi a favore dell’estetica complessiva – è abbandonandosi allo tsunami di immagini e stimoli, godendosi lo spettacolo della realtà plasmata da Freaks Out.