Un supermercato i cui scaffali si riempiono poco a poco, un pasto cotto al microonde, un tavolino sotto una finestrella dove consumarlo da soli. Un’officina di ferraglie a cielo aperto, una fiaschetta di alcol nel taschino, un bungalow dove passare il tempo stipato con altri operai. Poi, una sera, il karaoke. E questi due mondi solitari, il supermercato e l’officina, si guardano negli occhi. Non si dicono nulla, anzi impiegheranno un bel po’ a farlo in Foglie al vento, ventesimo lungometraggio del regista finlandese Aki Kaurismäki, celebrato con il Premio della giuria alla 76esima edizione del Festival di Cannes.
Un film, ci stavamo dimenticando l’aggettivo, straordinario. Che prosegue il cantico d’amore sul proletariato e al proletariato di cui Kaurismäki ha disseminato la propria filmografia nel corso dei decenni. Cosa che continua a fare a modo suo e forse in uno dei pochi modi ancora possibili – assieme al modo in cui lo fa pure Ken Loach, di cui è l’altrettanto meraviglioso The Old Oak, tra l’altro sempre a Cannes. Sarebbe a dire astraendo dallo sguardo di un cosmo indifferente, cioè dagli interessi e dalle cure di uno Stato inesistente, dell’apparato pubblico e da criminali regolamentazioni lavorative che vogliono questi personaggi impagliati vivi.
Come se fossero protagonisti di un’ucronia affacciata sull’apocalisse, che Foglie al vento tratteggia in uno sbilenco futuro prossimo, dove il calendario segna il 2024 e la cui unica altra coordinata a-temporale è la radio che passa le angoscianti notizie di una guerra ancora in corso tra Ucraina e Russia.
Una storia d’amore tragicomica
Appunto, però, l’autore finnico classe 1957 strappa Ansa (Alma Pöysti) e Holappa (Jussi Vatanen), questi i nomi dei protagonisti, dalla freddezza bidimensionale di uno sfondo sul quale sono schiacciati, ingranaggi zelanti e sempre squattrinati. Li fa collidere in quell’incrocio di occhiate mentre l’amico Huotari (l’esilarante Janne Hyytiäinen) ci prova con l’amica Liisa (Nuppu Koivu). Da qui si incendia una pagliuzza che prima di ardere deve destreggiarsi tra le assurdità tragicomiche della vita, tra incroci fortuiti, tra le debolezze di lui e l’invidiabile resilienza di lei.
Su di loro il film allinea i rintocchi di una storia d’amore che, a guardar bene, segue quasi in tutto e per tutto le direttrici sempreverdi delle rom-com inglesi o statunitensi. Vestendo poi il tira e molla di quel riconoscibile umorismo nordico costantemente teso, in apparenza, tra il glaciale e l’enunciativo. Perché sulla superficie dei loro volti questi personaggi pare non argomentino mai. Non sorridono, non piangono. Le smorfie sono abolite. Eppure, basta osservarli per un istante negli occhi, nelle pose che assumono quando sono in piedi, quando si siedono, bevono o mangiano.
Allora lì, quando si fa breccia sotto la corazza della vita, escono fuori i sospiri di un vissuto grigissimo e magari un po’ rassegnato alla solitudine, ma che alla disperazione non ha ancora mai venduto la pelle. E siccome straordinario è l’aggettivo che abbiamo affibbiato al petto di Foglie al vento, straordinari a dir poco in questa sottrazione sono Pöysti e Vatanen. Duettanti in un’operetta dove le prossimità sentimentali passano prima nella riscoperta della prossimità fisica, nella postura del saper stare seduto in compagnia su una sedia, su un divano o su una poltrona del cinema – a vedere, in un altro sfasamento del film, I morti non muoiono di Jim Jarmusch.
Un cinema di posture
Ecco, sì, possiamo dire che Foglie al vento è un cinema di posture. Postura che significa anche saper rimettere la schiena dritta dopo essersi spezzati (ad un certo punto, letteralmente) sotto il giogo di questa realtà liofilizzata e apatica, restituita in scenografie anni Settanta (Aino Kaurismäki) illuminate dalla splendida fotografia di Timo Salminen. Postura che è l’evidenza con la quale ci si presenta agli altri, con la quale si comunica agli altri un interesse o un disagio. Con la quale insomma si risponde presenti, in primis a se stessi, nel privato e poi nella società. Sto dritto, quindi sono. Sto dritto nel corpo e nell’animo ripuliti, quindi sono pronto a stare con te.
Attraverso questo, Foglie al vento comunica tutto lo spettro dei sentimenti umani – amore, odio, gioia, tristezza, soddisfazione, rabbia – e lo fa con una semplicità argomentativa da renderlo universale e fruibilissimo (dura meno di un’ora e venti). Un cinema, questo pensato così da Kaurismäki, che risponde all’indifferenza ripartendo da una cosa semplice, da un “non è mai troppo tardi”. Tratto che ha in comune con il film dell’altro signore nominato prima, Loach. Dunque riparte, sfida l’angoscia dell’esistere nell’era dell’individualismo cannibale e affida le mani di uno nelle mani dell’altro. Per riconoscersi oggi in due cuori e una capanna e domani, magari, in una piccola collettività.