Ci sono vite straordinarie che meritano di essere raccontate sul grande schermo, per poter essere divulgate e tramandate, consegnandole all’immortalità del ricordo collettivo. Ma ci sono anche – e soprattutto – delle piccole, epiche, storie che hanno per protagoniste persone ordinarie dal talento straordinario. Qual è il talento della signora Florence Foster Jenkins, definita come “la peggior cantante di sempre”?
Prova a spiegarlo il regista Stephen Frears (The Queen, Philomena) attraverso la sua ultima pellicola, intitolata appunto Florence e incentrata sull’ultimo anno di vita della donna, un anno vissuto “pericolosamente” e con un unico obiettivo: cantare senza che nessuno le potesse recriminare, almeno, di non averci provato.
Nella New York del 1944 Florence Foster Jenkins è la primadonna dei salotti upper class. Generosa nelle donazioni, appassionata dell’opera e della musica classica, amica di eclettici musicisti (uno su tutti, Arturo Toscanini), coltiva un desiderio: poter condividere il suo dono con la gente. E di quale dono si tratta? Della splendida voce che solo lei può sentire nella sua testa, e che nella realtà si trasforma in uno stonato ed improbabile concerto. Supportata dalla grinta e dalla propria voglia di vincere (nonostante la sifilide, che contrasse a diciott’anni durante il primo matrimonio), con il piccolo aiuto del marito impresario St. Clair Bayfield e del pianista Cosme McMoon – sempre pronti a proteggerla dalle critiche e dalle cattiverie gratuite da parte della gente –, Florence riuscirà a coronare il suo sogno, conquistando addirittura la Carnegie Hall.
Florence è un biopic dall’impianto classico, tradizionale e rassicurante. Frears – esperto nel narrare vite straordinarie, come dimostrano i precedenti The Queen, Philomena eThe Program – focalizza l’attenzione della propria macchina da presa su Florence, sul suo istrionismo, le stravaganze e le stranezze che trovano una giustificazione emotiva nella propria forza di volontà. Così, la vicenda di una improbabile cantante dallo scarso talento si trasforma in un inno per tutti i losers sconfitti dalla vita o messi a dura prova da quest’ultima, a non arrendersi mai all’esito degli eventi e alle regole imposte dal destino.
Il cuore caldo e pulsante del film è nascosto nelle performance del perfetto ensemble di attori che si può ammirare sulla scena. Nessun nome giovane e rampante da tener d’occhio, ma un gruppo composto da consolidati talenti over 50 e da comprimari caratteristi dall’incontenibile carattere: Meryl Streep (istrionica come sempre, divertita e divertente nei panni della Jenkins), Hugh Grant (che, per la prima volta, si affranca dal suo appeal da eterno scapolo per rubare la scena alla Streep con il devoto ritratto di St. Clair, marito traditore ma fedele con il quale lo spettatore finisce per simpatizzare), Simon Helberg (il “surreale” pianista McMoon, timido, nevrotico, improbabile ed alieno nel mondo di cartapesta della Jenkins) ed infine Nina Arianda (l’eccessiva pin up biondo platino moglie di un ricco finanziatore) forniscono le pennellate definitive, attraverso le loro interpretazioni, al pittoresco ritratto di una donna che non si è mai arresa di fronte all’evidenza degli eventi, lottando per affermare i propri ideali.