Se Francois Truffaut anni orsono metteva in dubbio (con ironia) l’esistenza del cinema inglese, in questo 2023 noi non possiamo che prendere atto, invece, non solo dell’esistenza ma anche dell’ottima salute del cinema irlandese. Già, perché l’isola celebrata da molti dei suoi figli erranti – al cinema, ad esempio, da John Ford, in ambito musicale da Johnny Cash – quest’anno è balzata agli onori della critica grazie a una serie di film di alto0 livello; non solo belli, ma profondamente radicati nella cultura del luogo, e per questo motivo difficilmente immaginabili al di fuori del loro contesto “naturale”. Se con Gli spiriti dell’isola Martin McDonagh ha affrontato – con delicatezza e ambizione – la guerra civile che sconvolse il paese nei primi anni ’20 del secolo scorso, film “minori” come The Quiet Girl di Colm Bairéad e Creature di Dio di Saela Davis e Anna Rose Holmer raccontano storie più intimiste e struggenti affidandosi nel primo caso ai topoi del racconto di formazione, mentre nel secondo ad atmosfere da tragedia shakespeariana.
Film, dunque, molto diversi tra loro. Ma che, a ben vedere, presentano un tratto distintivo comune: la volontà di riflettere sul concetto di famiglia disgregata. Quella “allargata” della nazione nel film di McDonagh, minata da una guerra fratricida che mette l’uno contro l’altro anche gli amici di lunga data; quella in formazione dalla quale la giovane Cáit deve separarsi alla fine dell’opera di Bairéad; quella dilaniata dai dubbi della madre Aileen sull’innocenza del figlio accusato di stupro nel dramma di Davis e Holmer. Famiglie, in tutti i casi disfunzionali (ognuna a modo suo). Lo stesso genere di famiglia che recentemente ha messo in scena anche un altro autore irlandese, John Carney, in Flora and Son, disponibile da qualche settimana su Apple Tv+. Lontano dall’ambientazione funerea e provinciale delle opere sopracitate, il film è una commedia dolce-amara che narra le vicissitudini di una ragazza madre e di suo figlio adolescente sullo sfondo di una Dublino lower-class caratterizzata da lavoro nero, disagio giovanile e desideri di rivalsa.
Un regista e la (povera) gente di Dublino
Quello di John Carney è un cinema gentile, rispettoso nei confronti dello spettatore, incapace di chiederne furbescamente il favore attraverso la facile retorica. Irlandese, classe 1973, figlio di Dublino – non a caso al centro di molte sue storie -, Carney ha iniziato la sua carriera nel mondo dello spettacolo come musicista (ma guarda un po’…), per passare poi a cinema e televisione. Il successo internazionale è arrivato con Once, piccolo grande film al cui interno erano già presenti i tratti distintivi del suo cinema: l’attenzione nei confronti di antieroi appartenenti ai ceti sociali meno abbienti; la capacità di alternare con sapienza dramma e commedia; la convinzione che la musica abbia un potere taumaturgico capace di influenzare positivamente le complicate vite dei suoi personaggi.
Non stupisce, dunque, ritrovare questi elementi in Flora and Son. Anche in questo caso, infatti, la musica rappresenta per i personaggi uno stimolo per dare qualche pennellata di colore alla loro grigia esistenza. Provate a mettervi nei panni di Flora (Eve Hewson): hai poco più di trent’anni, un figlio adolescente (Orén Kinlan) che è già un teppista e con cui non riesci a comunicare, un ex compagno musicista (Jack Reynor) che ti rinfaccia costantemente di avergli precluso la carriera nel mondo dello spettacolo, un lavoretto come baby sitter (presumibilmente sotto pagato) e nessuna prospettiva futura. Sei un po’ sociopatica, vagamente alcolizzata, gli uomini ti trattano come un oggetto, le amiche dispensano opinioni sul tuo conto che paiono più pugnalate che carezze, e ti accorgi all’improvviso che la tua vita è deragliata ormai da anni e che le possibilità per rimetterla in carreggiata sono praticamente pari allo zero. Come reagireste? (Se reagireste).
Tra sogni, voglia di evasione e realtà
Se un regista come Ken Loach, partendo da queste premesse, avrebbe realizzato un film fortemente politico sulle ingiustizie della società contemporanea, John Carney sceglie di percorrere una strada differente. Non si tira indietro quando si tratta di descrivere lo squallore che circonda i suoi personaggi, ma è troppo coinvolto nelle loro vicende, li vuole troppo bene per erigerli a specchio delle storture sociali. Non li abbandona al loro (più o meno triste) destino, ma si impegna – in qualità di demiurgo delle loro storie – a dare un senso alle loro vite.
E qui, come sempre nei suoi film, entra in gioco la musica: un giorno, Flora raccatta (letteralmente) una chitarra che sta per andare al macero (inizialmente destinata al figlio, che si rifiuta di utilizzarla) e si mette in testa di imparare a suonare. Per dare una svolta alle sue tristi giornate (o quantomeno provarci), ma anche per dimostrare all’ex compagno di essere all’altezza delle proprie (estemporanee) ambizioni. Tra un corso di YouTube e l’altro, Flora capita sul profilo di un affascinante insegnante californiano, Jack (Joseph Gordon-Levitt), con alle spalle una carriera in ambito musicale mai decollata, decidendo di prendere delle lezioni in privato (su Zoom, date la distanza tra maestro e allieva). Manco a dirlo, gli incontri da remoto cambieranno la vita a entrambi, facendo nascere tra i due un sentimento platonico. Benché le sequenze dedicate esclusivamente a Flora a Jack rappresentino un aggiornamento del tema del “breve incontro”, a Carney non interessa trasformare il rapporto tra i due in una mera fuga dalla realtà.
Un po’ come in Cenerentola di Walt Disney (la Mezzanotte arriva, prima o poi), la consapevolezza che la realtà non è così facilmente manipolabile e che in certi casi bisogna cercare di trovare un compromesso tra quello che si desidera e quello che si riesce materialmente a ottenere è uno dei tratti distintivi di Flora and Son, e rappresenta uno dei suoi punti di forza. Attenzione, però. Questo alto grado di consapevolezza – dell’autore in primis, e dei personaggi in seconda battuta – non significa che nel mondo fittizio (ma quanto mai reale) del film non ci sia spazio per i sogni. Sognare è pur sempre possibile – Flora vagheggia un viaggio a Los Angeles da Jack per buona parte del film -, ma a condizione di mantenere i piedi per terra
Un film (forse fin troppo) semplice che parla al cuore
“Magicamente”, nella seconda parte del film, il rapporto – fino a quel momento conflittuale – tra i personaggi si rinsalda. E questo accade proprio grazie alla musica. Per Flora si tratta, di fatto, di una rivelazione. Impossibile definire in altro modo lo stupore della protagonista di fronte alla passione (e all’acerbo talento) del figlio per la musica elettrorap. Certo, tutto accade con eccessiva semplicità a livello narrativo. In particolare, è grossolana l’ingenuità con cui Flora e il figlio rinnovano il loro (fino a poco prima perduto) affetto, tenuto conto dei continui e feroci battibecchi tra i due (“Sei una troia!”, “Questa troia ti ha messo al mondo, ingrato del cazzo!”). Mentre è un peccato che siano sacrificate le potenzialità della (virtuale) storia d’amore tra la protagonista e Jack, che rimane in sospeso e appare in fin dei conti strumentale.
Anche tenendo conto dei suoi limiti, è comunque difficile non definire Flora and Son un film piacevole. Perché parla al cuore, coinvolgendo la nostra parte emotiva. Il film, infatti, si fa apprezzare per il suo candore, per il suo messaggio positivo, per la sua fiducia incondizionata nella possibilità che cambiare è possibile, anche senza fare rivoluzioni copernicane. Proprio il realismo con cui è narrata la storia di Flora evita che il film prenda derive buoniste. Tutto torna, alla fine, ma giustamente fino a un certo punto. La famiglia si ricongiunge, è vero, ma solo spiritualmente. Il traguardo che i personaggi raggiungono, per Carney, non è quello di migliorare la loro condizione all’esterno, ma all’intento, dentro loro stessi.
La musica non farà diventare Flora la nuova Taylor Swift, così come non ha fatto diventare Ian il bassista di un gruppo famoso, o non ha aperto le porte dello showbiz per Jack. A primo colpo, alla fine del film, tutto potrebbe apparire tristemente uguale. Eppure, a ben vedere, tutto è (sottilmente, ma drasticamente) diverso. Perché, parafrasando il titolo italiano di un altro film di Carney, tutto può (effettivamente) cambiare. Basta solo crederci.