La formula della commedia si basa su un equilibrio sottile, un movimento esatto e musicalmente perfetto nel quale ogni linea di dialogo risponde a delle regole universali che funzionano “ad orecchio”, dimostrando ancora una volta quell’equazione fondamentale che sostiene l’intero genere: la battuta è data dal connubio tra ritmo e tempo. Siamo di fronte ad un macro-genere onnicomprensivo che è una macchina esatta alla ricerca di attenzioni e costante manutenzione per evitare di cadere nella banalità e nella risata vuota (quest’ultima non sempre garantita); un vizio di forma che spesso travolge numerosi progetti, vittime di una stanchezza insita nel loro DNA già in partenza, sulla carta, soprattutto quando nascono come opere “derivative”, liberi adattamenti – o copie conformi – di film preesistenti di cui diventano remake (più o meno) spuri.
Questa premessa è necessaria per analizzare un fenomeno fin troppo diffuso nel nostro cinema italiano, ovvero la necessità – fisiologica – da parte della produzioni di acquistare soggetti già sviluppati, trasformati in opere che hanno già debuttato sui mercati stranieri. Un’operazione insolita che trova una sua solida motivazione negli aspetti economici e nella sicurezza di investimenti altrimenti rischiosi, considerando la condizione delle sale e la presenza del pubblico in quest’ultime. Così si prediligono sempre più spesso remake e, appunto, adattamenti di opere provenienti dai mercati europei o ancora più lontani dall’Italia, esattamente come è accaduto con Finché notte non ci separi, titolo dell’opera diretta da Riccardo Antonaroli (che aveva esordito con La svolta) che qui torna a maneggiare (con cura) un passo a due tra anime incerte lanciate nel cuore di una lunghissima notte… di nozze.
Eleonora (Pilar Fogliati, Romeo è Giulietta) e Valerio (Filippo Scicchitano, Cattiva Coscienza) si sono scambiati le fedi e giurato amore eterno e sono pronti a godersi la luna di miele nella lussuosa suite di un hotel romano. Ma non sanno che invece, di lì a breve, verranno catapultati nella notte di una Città Eterna affascinante e misteriosa, in cerca di qualcosa di importante… o forse, semplicemente, di loro stessi.
Il racconto di una fuga al termine di una lunga notte
Dopo un passaggio – in anteprima – presso il Taormina Film Fest e la prossima uscita nelle sale il 29 agosto, a cavallo con l’arrivo del Festival di Venezia e la fine dell’estate, Finché notte non ci separi cerca di trovare una propria comfort zone nel mare magnum agitato della commedia nostrana odierna, in cerca di un’identità definita dopo aver perso i contorni certi dei propri confini; dalla commedia all’italiana – cinica, indolente, sardonica e di costume – passando per l’epoca della risata facile e nazional-popolare dei Cinepanettoni più spensierati, negli ultimi anni qualcosa è cambiato, ponendo registi, sceneggiatori e maestranze di fronte a un cambiamento epocale che riguarda gusti, abitudini e scelte degli italiani. La commedia attuale guarda, con nostalgia, ad un modello immortale intriso di romanticismo, cercando di trovare un nuovo punto di vista per raccontare soprattutto la società attuale e un mondo in continuo mutamento. Negli anni ’90 la rom-com ha raggiunto il proprio apice soprattutto oltreoceano, tirando i fili di una tradizione che ha segnato la cultura pop nord-americana: e da noi? Qual è il suo stato di salute?
Dobbiamo partire dal presupposto necessario che anche l’opera di Antonaroli, come detto in apertura, deriva da un modello preesistente. Dal film di successo Honeymood della regista israeliana Talya Lavie, dal quale riprende perfino la locandina. Necessariamente è stato compiuto un lavoro di adattamento, non solo per quanto riguarda la location e i protagonisti – da Gerusalemme passiamo ad una Roma notturna romantica e malinconica – ma soprattutto gli aspetti culturali: perché l’umorismo ebraico è un universo a sé stante, un pianeta complesso all’interno di un sistema solare nel quale gravitano le innumerevoli sfumature della risata, diverse per ogni luogo e tradizione. Il Witz ebraico – come lo chiamava Freud nel suo saggio sul motto di spirito – è unico, brillante, auto-critico (quanto basta) e brillante, neurotico e portatore sano di contraddizioni ataviche.
Un universo ben lontano da quello della risata italiana, che necessita quindi di un lavoro certosino per adattare un’impronta specifica avvicinandola al gusto di un mercato completamente diverso, per intercettarne le passioni e le suggestioni. A reggere sulle proprie spalle il peso di questa mini-fuga al termine di una lunga notte è la coppia Pilar Fogliati-Filippo Scicchitano: belli e affiatati, perfettamente in parte, pagano purtroppo il pegno di una sceneggiatura che non ha il coraggio di andare fino in fondo, di scavare sotto la superficie facendo saltare lo stesso meccanismo comico-brillante alla base del genere.
Due Millennials in fuga alla ricerca di loro stessi
Perché Finché notte non ci separi è palesemente un dramedy, una commedia amara e malinconica, che non cerca – e non trova – la risata facile, preferendo l’ambito dei sentimenti e le corde delle emozioni alle battute. Gli echi scorsesiani di Fuori orario (ma anche dell’opera di Landis Tutto in una notte) sono solo abbozzati, suggestioni seducenti che finiscono per stemperarsi in un caotico pastiche di volti e situazioni poco incisive, non così “forti” da giustificare il corso degli eventi e lo scorrere degli atti dall’inizio fino all’inevitabile conclusione.
Il film di Antonaroli ha un potenziale seducente ma manca di quel coraggio necessario per saltare “oltre l’ostacolo”, smarcandosi dall’ombra del modello originale e trovando una propria via autoctona, in grado anche di trasformare Roma in una protagonista assoluta, non solo uno sfondo da cartolina che accompagna le follie notturne della coppia di sposi protagonisti. Interessante, nonostante la timida personalità che attraversa febbrilmente il prodotto finale che si può ammirare sullo schermo, è però l’idea che sostiene l’intero progetto e che costituisce un’istantanea impeccabile sulle contraddizioni interiori di un’intera generazione: quei Millennials costretti ad abituarsi all’incertezza, tanto da fuggire di fronte ad impegni e responsabilità più importanti.
Perché alla fine Finché notte non ci separi è il racconto di un’ultima fuga, anzi, di un ultimo giro di danza per due Millennials (appunto) che si sono sposati senza prima trovare loro stessi, rischiando in tal modo di perdersi nell’incertezza indefinita di una scelta più grande di loro. Né Eleonora né Valerio sanno esattamente chi sono e cosa desiderano dalla vita e forse non si conoscono nemmeno così bene da giustificare la decisione di passare un’esistenza insieme, “in salute e in malattia, finché morte non ci separi”; una formula secolare che trova sempre meno spazio nel mondo odierno veloce, in continuo mutamento, al quale è difficile adattarsi senza sacrificare una parte importante di se stessi. Una realtà che richiede una quantità di tempo infinita – e indefinita – che è impossibile avere a disposizione, complice l’unica chance che abbiamo di passare del tempo su questa Terra; ed ecco che il film di Antonaroli si trasforma in una riflessione amara sulle ultime buone occasioni, sugli atti mancati, sui percorsi intrapresi e sui pentimenti, ma anche sui sensi di colpa e sui dubbi esistenziali.
Temi importanti e d’attualità approfonditi raramente nell’ambito della rom-com, da sempre terra – e zona di comfort – dei buoni sentimenti e dei “lieto fine” attesi e desiderati. Per questo, nonostante le debolezze strutturali, la personalità dimessa e la mancanza di un pizzico di coraggio in più per gettarsi nel blu profondo (e insondabile) della novità, Finché notte non ci separi rappresenta una bozza fondamentale; uno schizzo appena accennato su un foglio di carta che potrà servire come stella polare per i naviganti che vorranno solcare questi mari, quelli della commedia declinata attraverso le sue infinite sfumature e contaminazioni di genere, per elaborare una via alternativa e un nuovo linguaggio per rappresentare il mondo di oggi sul grande schermo, in modo sempre più fedele e contemporaneo.