Se non eravate alla 78a Mostra del Cinema di Venezia e non conoscete il duo argentino composto dai registi Gastón Duprat e Mariano Cohn (El artista, 2008; El ciudadano ilustre, 2016), è molto probabile che guardando il trailer e la locandina di Finale a sorpresa – Official Competition, siate colti da una sensazione di cauto scetticismo: brillante commedia francese con super cast o autoreferenziale riflessione sul cinema? Divertente farsa o pretenzioso film d’autore? Ebbene, nessuno dei due.
Nonostante la campagna promozionale tenti di farlo sembrare un sofisticato e patinato balocco, Finale a sorpresa è in realtà una dissacrante e acuta peregrinazione nel mondo dello spettacolo. Ben venga quindi la pubblicità ingannevole che mira (nobilmente, di questi tempi) ad attirare quanto più pubblico possibile in sala: il film di Duprat e Cohn, che a Venezia ha conquistato ottime critiche dalla stampa italiana e internazionale, è perfettamente in grado di accontentare la stragrande maggior parte degli spettatori, sia quelli in cerca di un film intelligente e stilisticamente valido che quelli ansiosi di trascorrere due ore di svago in compagnia di un grande cast.
Partiamo proprio da qui, da un terzetto di attori perfetto: Penélope Cruz, Antonio Banderas e Oscar Martínez. La prima veste i panni di una regista fuori dagli schemi, esigente, con una propria metodologia sugli attori costantemente in procinto di superare il confine tra normalità e follia. Cruz è, per una volta si sprechino i superlativi, divina in questo ruolo, sia per physique du rôle che per qualità attoriale. Il duo di attori maschili è altrettanto indovinato, sebbene Banderas appaia un pelo troppo maturo rispetto al suo personaggio; i loro battibecchi senza soluzione di continuità sono scritti tanto bene quanto ben interpretati, e si fatica a stabilire quale tra i due sia più istrionico dell’altro.
Le dinamiche al vetriolo (sembra di trovarsi in Carnage di Roman Polanski) tra i tre personaggi introducono lo spettatore al tema centrale: il cinema e le sue intrinseche contraddizioni. Per dirne una: come nasce un film d’autore in grado di unire la più brillante regista e i migliori attori sulla piazza? Da un produttore illuminato? Dall’idea geniale di un autore? No, banalmente può bastare lo zampino di un anziano e ricchissimo farmaceutico in cerca di immortalità, che acquista i diritti milionari del bestseller del momento per realizzare un film al cui successo legare per sempre il proprio nome. E quanta introspezione, trasporto e metodo c’è dietro un’interpretazione? Moltissima, secondo Iván Torres (Martínez), zero per Félix Rivero (Banderas).
L’arte è quella cosa in grado di muovere le masse o un piacere più elitario che necessita di un gusto allenato? A queste contrapposizioni non viene volutamente data risposta, ogni posizione sembra corretta e sbagliata allo stesso tempo; Duprat e Cohn si divertono a far scontrare nel film posizioni antitetiche (quelle dei due protagonisti maschili) “moderate” dalla insana vacuità di un mondo fatto di sperimentazioni assurde, richieste stravaganti, metodologie improbabili, incarnato da Lola Cuevas (Cruz).
Questo continuo ping pong che detta i tempi comici e drammatici del film è inglobato in una più ampia riflessione sull’ipocrisia e finzione del mondo dello spettacolo. A renderla manifesta basterebbe la location in cui si muovono i protagonisti, la gigantesca Fondazione del mecenate che innesca la vicenda, uno spettacolare mausoleo alle intenzioni disattese (ritroverete alcuni esterni nel Centro de Congresos y Exposiciones Lienzo Norte di Ávila e nel Teatro Auditorio di San Lorenzo de El Escorial). Ma i registi non si accontentano e popolano i magnifici e desertici set di una moltitudine di specchi in cui i personaggi si crogiolano, ricostruiscono, smascherano, sdoppiano, sottolineando quanto sia labile il confine tra verità e finzione, uomo e maschera, costruzione e autenticità.
Più che mostrare al pubblico come funzioni la macchina del cinema, Finale a sorpresa riflette sul propellente instabile che rende possibile un film: ego, vanità, senso di superiorità, teatralità, ossessività. Una miscela esplosiva che se incontrollata rischia di disattendere paradossalmente le aspettative dei suoi stessi artefici, premiando alla fine chi ha saputo fingere meglio. Da questo punto di vista è emblematico il finale (a sorpresa! Infatti non lo riveliamo), in cui l’accento è posto sulle storie aperte: se è impossibile distinguere la realtà dalla menzogna, dove inizia una storia e, soprattutto, quando finisce? Siamo anche noi inconsapevoli attori di un film di cui non conosciamo il copione?
Al di là delle elucubrazioni mentali e dei tanti spunti di riflessione, alcuni divertenti altri più amari, Finale a sorpresa è una perfetta macchina di intrattenimento, che oltre a una narrazione fluida, intermezzi comici e ottimi dialoghi porta avanti la propria riflessione sull’arte anche in termini estetici, qui con un pizzico di godibile autocompiacimento. La maggior parte delle scene del film, infatti, con la complicità di una eccellente selezione delle location, sono autentici quadri, enfatizzati da una attenta fotografia e talvolta accentuati da contrasti cromatici.
Non meno attento il lavoro sul suono: in una colonna sonora volontariamente ridotta all’osso, ci sono almeno due momenti in cui anche l’ascolto diventa protagonista del film, evidenziando la rottura tra pensiero interiore e mondo esterno, on stage e dietro le quinte. Quella scissione un po’ schizofrenica che in fondo contribuisce a rendere il cinema un entusiasmante circo delle virtù e vanità umane.