Ci sono degli indiscussi capisaldi che hanno attraversato – e costruito – la mitologia del cinema italiano: la risata amara, i caratteri, l’analisi chirurgica delle contraddizioni borghesi e il racconto delle difficoltà periferiche; ma anche i desideri inconfessabili legati spesso al conflitto tra società e desiderio, l’ingerenza della politica e tanti altri.
Temi ricorrenti, leitmotiv pronti a definire la carriera dei cineasti consacrandoli all’immortalità della settima arte, fornendo a tutti i loro epigoni materia viva pulsante dalla quale partire, per rielaborare topoi da adattare alla modernità incalzante. E l’opera prima firmata da Micaela Ramazzotti, già attrice di punta del mercato audiovisivo italiano (La pazza gioia ma anche Tutta la vita davanti e La prima cosa bella, per i quali vinse due David di Donatello), si colloca perfettamente in questo segmento sperimentale seppur così convenzionale, in grado di rielaborare tropi ben noti con una delicatezza che, spesso, manca a molti prodotti contemporanei.
Felicità, presentato nella sezione Orizzonti Extra all’80esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia – dove la Ramazzotti è stata premiata con il Premio Spettatori – Armani Beauty – approderà nelle sale dal 21 settembre, portando sullo schermo la storia di una famiglia storta, fatta di genitori egoisti e manipolatori, un mostro a due teste che divora ogni speranza di libertà dei propri figli. Desirè (la stessa Ramazzotti) è la sola che può salvare suo fratello Claudio (Matteo Olivetti) e continuare, nel frattempo, a lottare contro tutto e tutti in nome dell’unico amore che conosce, pronta a tutto pur di inseguire un po’ di felicità.
Il linguaggio della delicatezza per raccontare la realtà
Può un film, in apparenza avvolto da un velo di marcato effetto déjà-vu, riuscire invece a sorprendere lo spettatore? Sì, come succede nel caso di Felicità. Complice la “direzione degli attori” e la sceneggiatura firmata da Isabella Cecchi, Alessandra Guidi e la stessa Ramazzotti, quest’opera prima usa il linguaggio della delicatezza per raccontare la realtà, dipingendo – con pennellate acquarellate ma mai così dolenti – un quotidiano frammentario e scomposto che vede protagonisti un gruppo di personaggi disfunzionali, ognuno alle prese con i propri demoni e le contraddizioni, amare e malinconiche, che attraversano la complessa fallibilità umana.
Desirè, interpretata dalla Ramazzotti, è un carattere che abbiamo già visto innumerevoli volte sullo schermo, incarnato spesso proprio dalla stessa attrice: ma questa volta c’è qualcosa di più personale e dolente nella scrittura, una verità dettata da traumi e nevrosi freudiane che hanno segnato, in modo indelebile, tanto il passato quanto soprattutto il presente della protagonista.

Pur trovandoci in un racconto corale, Felicità sceglie (scientemente) di filtrare la realtà attraverso gli occhi di Desirè, trasformandola nella “spettatrice privilegiata” che assiste, impotente, al tracollo di un’esistenza pronta a configurarsi come l’unica pedina del domino caduta a terra, mentre tutte le altre restano in piedi, nonostante le loro evidenti difficoltà. Intorno a lei, si muovono personaggi sopra le righe, nevrotici a loro volta, caratteri che rubano la scena con le loro idiosincrasie: due genitori qualunquisti che sono da biasimare (e condannare) allo stesso tempo, una madre-chioccia e un attore fallito; un giovane fratello remissivo, sensibile e bipolare e infine un compagno egocentrico e forse narcisista, innamorato più di un’idea che della stessa Desirè.
Personaggi nati su carta che, improvvisamente, acquistano una corporeità tridimensionale grazie alle ottime interpretazioni del cast – composto dalla Ramazzotti, da Sergio Rubini, Max Tortora, Anna Galiena e Matteo Olivetti (che in molti ricorderanno per La terra dell’abbastanza dei Fratelli D’Innocenzo) – che confermano una fondamentale verità: l’attrice-regista, alla sua prima prova, non avrà dimostrato delle particolari capacità tecniche nella messinscena, ma senza dubbio ha confermato il suo talento come metteur en scène nell’accezione, squisitamente francese, della direction d’acteur.
Perché ci vuole talento per incanalare le emozioni altrui sullo schermo, osservandole da lontano – attraverso l’occhio meccanico della macchina da presa – mentre quest’ultime danzano sulla scena, disinibite e potenti, umane (troppo umane) e per questo così fragili, riconoscibili e dirompenti. Esattamente come la superficie di uno specchio, ognuno può specchiarsi nelle piccole idiosincrasie evocate dalla Ramazzotti e dai vari personaggi lanciati nel folle valzer dell’esistenza, scorgendo i lineamenti del proprio volto o quelli di qualcuno che si conosce fin troppo bene.
Un compendio sull’arte di sopravvivere
Felicità, a dispetto del titolo, è un compendio (infedele) sull’arte di sopravvivere, sulle difficoltà titaniche di convivere, giorno dopo giorno, con i traumi di un passato ingombrante; i temi trattati, per quanto comuni alla maggior parte della cinematografia italiana contemporanea, hanno il pregio di essere privi di qualunque giudizio morale, liberi di esprimere le proprie contraddittorie difficoltà. Si parla di salute mentale, tanto (e bene), mettendo a fuoco i meccanismi psicoanalitici e mostrando i plausibili scenari, soprattutto quando si è immersi in un mondo troppo impegnato a sopravvivere (come accade ai due fratelli Desirè e Claudio nel film).
Felicità rientra, così, appieno in un solco già tracciato da tanti film giunti prima – sia nel passato remoto che in quello più recente – ma ha anche la capacità di scavare più a fondo, trovando un delicato equilibrio tra dramma e commedia grazie soprattutto ad una scrittura virtuosa (e mai banale) quanto alle performance vibranti dell’ottimo cast in stato di grazia, libero da qualunque pregiudizio nei confronti dei personaggi che evocano sulla scena.