Provate a fare il nome di R.L. Stine ad un trentenne qualsiasi. Sarà difficile che il vostro interlocutore non lo associ immediatamente ai famigerati Piccoli Brividi. Per molti di noi, la fortunata serie di libri per ragazzi creata da Stine ha costituito lo step intermedio tra il Battello a Vapore e i libri “da grandi”: c’era l’illusione che avere il permesso di leggere racconti horror, per quanto edulcorati e creati ad uso e consumo di un pubblico di adolescenti, ci rendesse automaticamente più coraggiosi e quindi più adulti. Poco importava se fossero i nostri stessi genitori a comprarci uno di quei libretti: finalmente ci stavamo svincolando dal ruolo di bambini paurosi e indifesi.
D’altro canto, però, forse non tutti conoscono la serie di libri che ha preceduto i più famosi Piccoli Brividi, quella Fear Street che ha segnato l’esordio dello scrittore statunitense, nell’ormai lontano 1989. Era il 1997 quando si iniziò a parlare di un adattamento cinematografico della saga. Il progetto iniziò a concretizzarsi soltanto nel 2015 (quando 20th Century Studios e Chernin Entertainement acquisirono i diritti dei libri di Stine) per poi venire finalmente alla luce quest’anno, con la trilogia di film distribuita da Netflix e uscita sulla piattaforma streaming, a cadenza settimanale, a partire dal 2 luglio scorso. I tre film, tutti diretti da Leigh Janiak (Honeymoon) si snodano in un arco temporale incredibilmente lungo: si parte da Fear Street Parte 1: 1994, ambientato nel 1994, si continua con Fear Street Parte 2: 1978 e il suo salto a ritroso nel 1978 e infine si conclude con Fear Street Parte 3: 1666, che ha luogo nel remoto 1666.
Una serie di omicidi tanto efferati quanto inspiegabili turba la vita degli abitanti di Shadyside, una piccola cittadina dell’Ohio. Sarà un gruppo di adolescenti, capeggiato dalla brillante Deena (Kiana Madeira) e da suo fratello Josh (Benjamin Flores Jr.), ad indagare sulle origini della piaga oscura che si è abbattuta sulla comunità e a fare luce sul mistero che ruota attorno alla figura di Sarah Fier (Elizabeth Scopel), una strega vissuta nel Seicento, responsabile di una inquietante maledizione lanciata contro gli abitanti del paese.
Già dall’incipit di Fear Street – Parte 1 capiamo dove vorrà andare a parare l’intera operazione: ci troviamo di fronte ad un tributo al genere horror, e più in particolare al filone slasher. La prima sequenza del film strizza l’occhio all’iconico Scream di Wes Craven, con la talentuosa Maya Hawke (figlia del famoso Ethan e di Uma Thurman) a fare le veci di Drew Barrymore. L’impianto dei tre film è dichiaratamente citazionistico e, infatti, quello a Craven è soltanto il primo degli innumerevoli tributi prestati dalla Janiak al genere di riferimento. Un invito a nozze per i fan dell’horror che, però, devono stare attenti a non farsi troppe illusioni. Per quanto scritto con maestria e con una certa dose di furbizia atta a tenere desta l’attenzione dei più giovani, Fear Street non è altro che un teen movie in salsa horror. La forte componente ironica dei film smorza i toni orrorifici e rende, di fatto, gradevole l’intera trilogia.
Altrettanto apprezzabile è la scelta di andare a ritroso nel tempo: il secondo e il terzo capitolo della serie non sono altro che prequel del primo film. È il passato, e non il presente né tantomeno (come ci si aspetterebbe) il futuro, a fare luce sui misteri che avvolgono la cittadina di Shadyside: una scelta originale e coraggiosa, che conferisce freschezza e dinamicità alla narrazione. E infatti, l’apice della tensione lo si raggiunge con il terzo episodio, ambientato in gran parte nel XVII secolo e destinato a tirare le fila della storia: qui si assiste ad un inaspettato cambiamento di tono rispetto ai primi due film, che spiazza e incanta allo stesso tempo.
Stupiscono, tuttavia, le lodi sperticate fatte a Fear Street da parte della critica nazionale ed internazionale. Nella maggior parte dei casi, ciò che viene esaltato è l’approccio innovativo di questi film al genere horror. Ma di fatto, di innovativo non c’è niente: accoltellamenti, rumori sinistri, assassini mascherati e qualche scena vagamente splatter non bastano a creare nello spettatore la tensione e l’inquietudine che normalmente si ricercano all’interno di un qualsiasi film “di spavento”. Anche qualora l’intento degli autori fosse stato quello di dare vita ad una parodia del genere horror, il bersaglio viene soltanto sfiorato: si sorride a denti stretti e soltanto finché non ci si rende conto della ripetitività delle gag. L’ironia indubbiamente c’è, ma non essendo abbastanza caustica, si rivela insufficiente ad apportare quello scavalcamento parodico fondamentale in operazioni di questo tipo.
Alla fine, almeno se a guardare è un pubblico adulto e avvezzo a certi trucchetti narrativi, non può che subentrare la noia (dal momento, poi, che ciascun film sfiora le due ore di durata). Nessun personaggio è tanto rilevante da creare una solida immedesimazione in chi sta guardando e la stessa premessa (la strega perseguitata che lancia la sua maledizione su una comunità di bigotti benpensanti) è qualcosa di trito e ritrito, che abbiamo già visto in numerosissimi film. L’elemento di critica sociale, di conseguenza, non porta nessun nuovo contributo alla riflessione sulle differenze di classe e sulla difesa dei diritti del mondo LGBTQ+.
Va comunque sottolineato che Fear Street è onesto e non concede nulla di più di ciò che aveva promesso in partenza: una trasposizione, anche godibile, dei racconti di Stine. Che, ricordiamolo, sono infatti indirizzati ad un pubblico estremamente giovane, in cerca di mero intrattenimento. Esiste forse un lettore di età superiore ai 14 anni che legge ancora Piccoli Brividi? Il problema risiede in chi voglia vedere nella trilogia una innovazione e una genialità in realtà assenti. Se basta così poco per gridare all’opera d’arte (se non addirittura al capolavoro), allora non dobbiamo più stupirci se il pubblico è sempre meno esigente; non dobbiamo più gridare allo scandalo se si preferisce il divano ad una piccola saletta di cinema d’essai; non dobbiamo più rimpiangere i bei tempi andati.
Al di là della vivacità dei dialoghi e della particolare struttura narrativa non si assiste a particolari guizzi di originalità. Il che può andare anche bene, a patto che non si voglia dare a queste opere un credito sproporzionato rispetto alle loro effettive qualità. Qualità sufficienti a soddisfare un pubblico di ragazzini, ma che di certo non bastano a rendere la trilogia di Fear Street accattivante agli occhi di una platea anagraficamente varia e composta da spettatori in grado di distinguere un horror da una celebrazione (piuttosto fine a sé stessa, diciamolo) del genere horror.