La vertigine nei confronti tanto dell’altezza quanto del vuoto; un abisso che risucchia chiunque lo fissi troppo a lungo e che ci ricorda, allo stesso tempo, la nostra natura di creature complesse e fragili. Fall, il nuovo survival movie diretto da Scott Mann, cerca di conciliare questi poli opposti, oscillano tra la riflessione più profonda sull’insondabilità dell’Io e la tensione che corre lungo gli oltre 700 m della fittizia torre radio californiana B67, la quarta torre più alta degli Stati Uniti che fa da sfondo alle vicende mostrate nel film, in uscita nelle sale dal prossimo 27 ottobre.
Dopo la morte del marito Dan durante un’arrampicata sulle Montagne Rocciose, Becky (Grace Caroline Currey) e l’amica Hunter (Virginia Gardner) decidono di scalare una torre di trasmissione alta più di 700 metri per spargere le sue ceneri dalla vetta. Ma una volta giunte in cima, si ritrovano bloccate senza alcuna possibilità di discesa. Attorno a loro c’è solo il deserto e non c’è modo di chiamare i soccorsi: a quel punto l’unica scelta è lottare per la sopravvivenza, anche se tutto è contro di loro.
Fall cerca di aggiornare, nell’epoca delle sale da riempire e del pubblico da stordire con esperienze immersive da grande schermo, un topos (e una storia) che guardano agli archetipi della scrittura della suspense, tra luoghi comuni e immagini ricorrenti pronte a disturbare la percezione degli spettatori. Dal punto di vista della regia, Mann ha dichiarato fin da subito la sua attrazione per il genere thriller, la naturale inclinazione che lo spinge tra le braccia dell’action e del survival fino a compiere la scelta di richiedere alle sue protagoniste di eseguire da sole alcuni degli stunt del film.
Ambizioni interessanti, risoluzione altalenante
Una scelta rischiosa e discutibile che riflette, però, molto bene la naturale e disinvolta sicurezza con cui l’occhio meccanico di Mann si muove tra altezze vertiginose e abissi senza fine, percorrendo l’alto e il basso da cima a fondo, attraversandolo con la lucidità di un navigato mestierante e artigiano del cinema.
Fall – dai produttori del thriller 47 Metri – è un esempio dei tempi moderni e delle riflessioni attuali sul cinema della contemporaneità: quali sono gli elementi che spingono il pubblico a tornare in sala? Cosa sta cercando quest’ultimo nel buio imperscrutabile? Forse l’ebbrezza, l’emozione di un’esperienza immersiva totalizzante e sconvolgente: la catarsi di Aristotele aggiornata ai tempi del mainstream, alla ricerca di un brivido perduto che solo il grande schermo può restituire, lontano dai piccoli schermi che popolano le nostre vite.
Ma nonostante gli intenti, la ricerca di una scrittura della suspense che strizza l’occhio al cinema action “nudo e crudo” degli anni ’90, Fall sembra non centrare in pieno l’obiettivo, rincorrendo le suggestive utopie dell’attualità, dei discorsi sull’empowerment femminile, sull’inclusività che funziona solo se supportata da una sceneggiatura impeccabile, nata con questi intenti e non contaminata, ibridata tra desideri piegati alle esigenze del mercato reale. Il film di Scott si sforza di configurarsi come un grande giocattolo metaforico, con le vicissitudini che si avvicendano sullo schermo pronte a trasformarsi nella personificazione del viaggio dell’eroe compiuto dalla protagonista Becky, vittima di un lutto, che è costretta – dagli eventi – a rielaborare le proprie ferite tragiche, crescendo ed evolvendosi in breve tempo.
Ambizioni interessanti, risoluzione altalenante: la suspense funziona pur essendo – in più di un momento – prevedibile, ma i contenuti più riflessivi pagano il pegno della banalità, del luogo comune camuffato da profondità, come se lo sguardo lanciato nell’abisso finisse per spegnersi nella totale cecità.