In un’industria cinematografica dove le donne faticano sempre più a trovare ruoli femminili all’altezza delle loro reali capacità e dei loro più reconditi desideri da interpreti, e dove esistono ancora registi e produttori incapaci di credere nelle sconfinate possibilità che una prodotto audiovisivo con protagonista assoluta una donna possa contenere al suo interno, arriva come una ventata d’aria fresca e al tempo stesso come un vero e proprio schiaffo morale a tutti quei complessi e “deviati” meccanismi che regolano Hollywood, l’ultimo capolavoro di Paul Verhoeven, uno dei più controversi registi del cinema europeo (e non).
Ex “adepto” di quella grande “mecca del cinema” (rea di aver impedito nei modi e nelle forme più disparate la realizzazione di questo suo ultimo progetto) che a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 ha ridefinito l’immaginario collettivo attraverso una serie di pellicole divenute dei veri e propri cult, come RoboCop, Atto di ForzaeBasic Instinct, Verhoeven torna dietro la macchina da presa con Elle, adattamento del romanzo “Oh…” di Philippe Djan, folgorante atto d’amore nei confronti del cinema e dei suoi meccanismi narrativi in grado (se sfruttati sapientemente) di mescolare e stravolgere, e nei confronti della donna come prototipo di sperimentazione filmica, il cui corpo e la cui anima possono prestarsi magnificamente ad una storia dalle sfumature (anche) torbide ed ambigue.
La mano da maestro di Verhoeven, così abile nel fratturare in due la realtà, evita qualsiasi messa in scena didascalica a favore di una rappresentazione che contrappone le ambientazioni spazio-temporali creando un atmosfera pacata e disturbante allo stesso tempo, e che si sposa alla perfezione con i dialoghi taglienti e satirici della sceneggiatura di David Birke e con le immagini dimesse ma superbe della fotografia di Stéphane Fontaine.
L’intera opera è pervasa da un’impronta voyeuristica che trasforma lo spettatore in partecipante attivo per tutti i suoi 130 minuti di durata, dove si alternano sentimenti che lo fanno sentire prima inorridito e un secondo dopo divertito, poi ancora dubbioso e infine, a tratti, addirittura commosso.
Isabelle Huppert è un gigante che quasi provoca imbarazzo per quanto sia straordinariamente dentro Michéle e in tutto quello che il suo personaggio dice, pensa e fa. Dipingendo con estrema naturalezza, quasi come fosse il gioco più facile di questo mondo, il ritratto di una donna che non si vede come vittima e che non vuole essere identifica per nessuna ragione dagli altri come tale, la celeberrima attrice francese si abbandona completamente alla sceneggiatura e all’occhio della macchina di Verhoeven, mettendo tutta se stessa e il suo fascino (incluso il suo corpo sanguinante ma ancora incredibilmente attraente) al servizio di un personaggio che non sempre è facile comprendere ma che le incredibili doti dell’attrice rendono convincente sin dai primi ipnotici, malati, irresistibili minuti del film.
Attraverso la figura di Michéle, Paul Verhoeven trova un nuovo modo per criticare la società e le relazioni che intrattengono persone i cui comportamenti vengono celati dietro la patina del perbenismo borghese. Il regista olandese si serve di un registro che si evolve continuamente per costruire un autentico capolavoro dove tutto viene manipolato per sorprendere costantemente chi osserva e per raggiungere la totale libertà espressiva. Così tanto decantata e auspicata, fin troppo spesso sacrificata.