Siamo circondati da storie. Intorno a noi, davanti ai nostri occhi da curiosi si sciorinano quotidianamente teorie di eventi che spesso confluiscono in vicende, narrazioni alla cui base c’è sempre la stessa costante: la presenza dell’archetipo. Perché tutto è già stato raccontato, a variare è solo il modo (e il punto di vista), quando al principio ci sono dei tipi fissi, dei caratteri che si trasformano quasi subito in topoi narrativi. Ed è grazie a questi archetipi che le storie sono sopravvissute allo scorrere inesorabile del tempo, tramandandosi di generazione in generazione, cambiando forma e pelle senza intaccare la loro stessa essenza fino a giungere, inalterate nella loro potenza, a noi, figli della modernità incessante. Questi schemi sono alla base di qualunque storytelling attuale, alfa e omega dai quali partire e ai quali tornare dopo aver provato le infinite potenzialità del racconto.
Lo dimostra qualunque opera pop, dal cinema passando per la televisione, il fumetto e la narrativa, grazie ai quali a cambiare non è il modo di tramandare il racconto ma il modus operandi attraverso il quale si sperimenta l’arte dello storytelling, che si semplifica (nella maggior parte dei casi) man mano che il prodotto diventa più popolare, destinato ad abbracciare la maggior parte del pubblico di fruitori. Il cinema è stato il medium più pop fino alla nascita – e all’avvento – di altre forme, destinato ad intrattenere gli spettatori in sala garantendo loro l’evasione tanto sperata (ad una modica cifra). Ma cosa succede quando la settima arte cerca di bilanciare la fruibilità popolare del prodotto con l’archetipo, i tropi antichi che hanno attraversato lo spazio-tempo fino ad aggiornarlo all’attualità più contingente? Il risultato può sembrare come sospeso in un non-luogo, un limbo universale nel quale ognuno può muoversi e riconoscersi, privo di connotazioni specifiche ma ricco di significati nascosti e metaforici.
Uno struggente sentimento come la malinconia
È il caso di El Paraíso, nuovo film di Enrico Maria Artale che firma a quattro mani – insieme al suo protagonista Edoardo Pesce – il soggetto di quest’opera atipica, affascinante e simbolica, costellata di immagini potenti e significati archetipici. Nella pluripremiata opera presentata in Orizzonti a Venezia 80, accanto a Pesce – che a breve sarà di nuovo al cinema con il complesso dramma Dall’alto di una fredda torre – ci sono anche le attrici Margarita Rosa de Francisco, Maria del Rosario e Gabriel Montesi, quest’ultimo già “partner in crime” dell’attore romano nella serie Sky Christian.
Julio Cesar (Pesce) ha quasi quarant’anni e vive ancora con sua madre (Rosa de Francisco), una donna colombiana dalla personalità trascinante. I due condividono praticamente tutto: una casetta sul fiume piena di ricordi, i pochi soldi guadagnati lavorando per uno spacciatore della zona, la passione per le serate di salsa e merengue. Un’esistenza ai margini vissuta con amore, al tempo stesso simbiotica e opprimente, il cui equilibro precario rischia di andare in crisi con l’arrivo di Ines (del Rosario), giovane ragazza colombiana reduce dal suo primo viaggio come corriere della cocaina. Tra desiderio e gelosia la situazione precipita rapidamente, al punto che Julio si troverà a compiere un gesto estremo, in un viaggio doloroso che lo porterà per la prima volta nella sua terra di origine. Il film uscirà nelle sale il 6 giugno distribuito da I Wonder Pictures e prodotto da Ascent Film e Young Film.
Per capire El Paraíso c’è bisogno di abbandonare la ragion pratica lasciandosi cullare da uno struggente sentimento che risponde al nome di malinconia; questo grazie al profondo contrasto tra toni blu e colori sgargianti, brillanti tristezze e vivide nostalgie che riconducono al grembo della madre, sia essa reale o metaforica, genitore perduto o radici da riscoprire in un viaggio fino alla foce di se stessi. Julio Cesar, protagonista della piccola epopea narrata da Artale, ha già un nome impegnativo e altisonante che si scontra con la sua personalità: è un quarantenne legato a doppio filo con sua madre – della quale non sappiamo il nome, archetipo supremo – con la quale vive in simbiosi.
Julio è un eterno adolescente incastrato in una gabbia d’amore soffocante, incapace di trovare il coraggio necessario per assecondare le proprie pulsioni e i desideri, stritolato nello stretto spazio di un sentimento fagocitante. Per questo giovane uomo il viaggio compiuto nell’arco narrativo del film non è solo il classico percorso compiuto dall’eroe, ma un vero e proprio coming of age fuori tempo massimo, un work in progress formativo per trovare infine se stesso, portando con sé il ricordo di quella madre amata – e perduta – che sembra tracciare la rotta da compiere.
Un realismo magico doloroso, tra sogno e incubo
Per trovare se stesso Julio dovrà lasciare la zona alla foce del Tevere dove vive per tornare alle origini, al principio primigenio dal quale tutto ha avuto inizio e che si trova, chissà dove, in una Colombia affascinante ed esotica, come in un romanzo di Gabriel García Márquez; una terra di forti contrastanti nella quale i concetti di luce e ombra si rincorrono, giocando a nascondino con l’esistenza dei comuni mortali, alla ricerca di un miracolo da attendere ballando, tra una processione e un giro di salsa in un locale. Un Sud America lontano che è luogo mitico, nel quale quel paraíso tanto agognato da Julio esiste ma non si sa bene né dov’è né com’è, nessuno sembra averlo mai trovato, perduto chissà dove nella memoria popolare e collettiva.
Au contraire, il luogo dove invece vivono madre e figlio è, appunto, alla fine del fiume che attraversa la Città Eterna – meta da osservare in lontananza – collocato in una non meglio-identificata zona all’estremo confine di Fiumicino, un’Amazzonia metropolitana nella quale sbocciano i colori del Sud America e, al contempo, le atmosfere nostrane, con quel racconto della periferia divisa tra problematiche ed estremo realismo, tra il cinema di Claudio Caligari e le suggestioni di Matteo Garrone. Ma ad Artale non interessa la denuncia sociale, quanto narrare – attraverso le immagini – una storia universale d’amore complesso e completo; la quintessenza del sentimento, quello che lega (in quanto archetipo) un figlio ad una madre. In tal modo, il film si trasforma ancora una volta in una mappa di non-luoghi universali ed archetipici nei quali ognuno può ritrovarsi, appropriandosi dei frammenti di una storia che non appartiene a nessuno spettatore in particolare ma che finisce per comprendere tutti, proprio come l’abbraccio di una madre.
E ad infrangere questo equilibrio simbiotico già precario che lega i due protagonisti è l’arrivo di un terzo elemento, una donna della quale Julio Cesar si innamora, finendo per alterare lo status quo, uscendo da una prigione emotiva per entrarne in un’altra: la vita del giovane uomo è scandita dalle presenze femminili, determinata dalle loro assenze. E l’essenza stessa di El Paraíso, la potenza narrativa del suo racconto si annida nella musica che lo attraversa, in una colonna sonora che recupera gli standard della tradizione sudamericana, l’unica in grado di raccontare – dietro melodie spensierate e arrangiamenti leggeri – la drammatica malinconia dell’esistenza, in un cortocircuito comunicativo splendido e struggente allo stesso tempo, senso della vita ed essenza di molti dei rapporti che la popolano. La fotografia, seguendo quindi la stessa filosofia, gioca con i colori saturi, le luci e le atmosfere per rapire lo sguardo e servire lo shock emotivo, il dolore, la sofferenza e la solitudine; emozioni in forte contrasto, negativi di foto rubate di nascosto per tentare di fermare il tempo nell’attimo.
Allo stesso tempo le interpretazioni aggirano, con facilità, il tranello dei caratteri e delle macchiette stereotipate regalando dei personaggi umani (troppo umani), emblemi di un realismo magico doloroso che tinge la realtà di sogno e incubo, perturbante e malinconica fantasia, spingendo lo spettatore a sospendere la propria incredulità abbandonandosi, infine, alla narrazione e, soprattutto, ad una potente catarsi emotiva, che passa per i primi piani e gli sguardi, come gli intensi camera look che vedono protagonista Edoardo Pesce in diversi momenti chiave del film e che veicolano, senza parole, le emozioni più potenti che lo attraversano.