Siamo solo alla prima settimana di gennaio e già le piattaforme e i cinema scalpitano per regalarci nuovi film e nuove serie tv. Su Netflix, ad esempio, è disponibile dal 5 gennaio Dopo Oliver (titolo originale Good Grief), che racconta una storia di elaborazione del lutto. Non solo le conseguenze dell’assenza di una persona cara che non c’è più, ma anche i cambiamenti profondi che si affrontano per rispondere al dolore che la morte di qualcuno ha prodotto. Il nuovo film è scritto, diretto e interpretato da Dan Levy (la celebre sitcom americana Schitt’s Creek); vestendo anche i panni di produttore, Levy è quindi factotum dell’opera.
Dopo Oliver parla di Marc (Levy) e suo marito Oliver (Luke Evans) e della loro vita insieme interrotta dalla morte del secondo. Marc sembra essere inghiottito dal dolore ma lo affronta con il supporto e la compagnia degli amici di sempre dai quali è attorniato, Sophie (la candidata all’Oscar Ruth Negga, Loving) e Thomas (Himesh Patel, Yesterday). Un anno della sua vita scorre via cercando di processare il lutto per la morte di Oliver e, quando si avvicina l’anniversario della scomparsa del defunto marito, l’esplorazione fa emergere dei lati sconosciuti dell’uomo che amava. Tutto quello che viene fuori catapulta Marc in una verità del tutto nuova, amplificando di nuovo il dolore che soffre e senza avere possibilità di ottenere spiegazioni.
La fine dell’immobilismo di Marc
Alla fine di mesi laboriosi, Marc non riesce ancora a compiere il passo che lo condurrà verso la fase del distacco che gli permetterà di andare avanti con la sua vita. Questo anche a causa di un biglietto consegnatogli da Oliver come regalo natalizio l’anno precedente, poco prima che morisse accidentalmente. Marc continua a rimandare la lettura di quest’ultimo messaggio perché non sa quelle parole cosa gli riserveranno e se per caso gli restituiranno un po’ dell’amore che ha perduto.
Per trovare uno slancio e provare a rinascere, decide quindi di superare la paura e, dopo aver letto le parole del marito, di quasi risposta sceglie di partire per un weekend a Parigi, portando con sé Sophie e Thomas per ringraziarli della loro vicinanza. Parigi sarà l’occasione per mettere ordine nel disordine creato dalla lettura del biglietto di Oliver, ma anche per suggellare la fine dell’immobilismo di Marc e andare avanti. La parentesi parigina offre uno spunto di riflessione per i tre amici che si trovano l’uno di fronte all’altro ad affrontare punti deboli, errori e leggerezze commesse su se stessi e sugli altri due.
Marc ha vissuto per molto tempo della luce riflessa del marito, autore di brillanti romanzi per ragazzi dai quali sono state tratte saghe cinematografiche di successo, ed ora è concentrato su se stesso e sul suo dolore, spesso senza riuscire a trovare il giusto spazio per i suoi amici. Amici che nella sceneggiatura mancano di un equo spazio: se di Sophie, infatti, si comprende il perché di uno stato d’animo irrequieto, quello di Thomas sembra corrispondere a insofferenza, ma non è molto chiara la sua origine.
Un dolore che non genera empatia
Dan Levy sembra essersi concentrato nella creazione di personaggi piatti. Complice l’estetica tipica di Netflix, caratterizzata da una fotografia riconoscibile e da inquadrature che non rivelano sorprese, il contesto realizzato è freddo, specchio di una realtà da catalogo Ikea che non riesce a suscitare il calore dell’amore e la furia del dolore. La storia inizia a Londra e poi prosegue a Parigi, ma potrebbe essere ovunque: non si avverte il tepore delle strade parigine in dicembre, durante il periodo natalizio; i luoghi in cui i protagonisti passeggiano e girano sembrano tutti uguali, non esiste un timbro specifico che distingue un momento dall’altro.
Persino le case in cui scorre la vita e si consumano confidenze sembrano indistinguibili, fredde, impersonali. Nonostante Marc sia un disegnatore che ha arredato casa con le sue opere, il contesto resta distante e le personalità sottotono dei personaggi non riescono ad aggiungere nulla. Dopo Oliver racconta una tragedia purtroppo comune ma lo fa in un modo che non genera empatia anzi, provoca quasi distacco. Distacco perché è improbabile riconoscersi in una vita estremamente agiata che consente ad una persona di soffermarsi su di sé tutto il tempo necessario per risalire la china, in uno sfondo di lusso estremamente algido. La sensazione alla fine del film è quella di aver assistito a qualcosa di incompleto.
Levy non supera la prova cinematografica. Forse la serialità di un prodotto come Schitt’s Creek ha premiato l’idea del suo creatore nel lungo periodo mentre qui, in Dopo Oliver, si racconta una visione troppo edulcorata del dolore. Tutti vorremmo crogiolarci nelle nostre lacrime quando avviene una tragedia, ma alle nostre porte bussa sempre la vita non certo un weekend in un pied-à-terre a Parigi.