Quando è iniziata la Pandemia, quasi due anni fa, i più ottimisti di noi hanno intravisto un barlume di speranza anche nel mezzo di un’immane tragedia. Di fronte al propagarsi del virus, molti ipotizzarono che la difficoltà avrebbe fatto diventare le persone migliori. Una retorica follemente buonista cominciò a colonizzare i social network («Ce la faremo!»), un profluvio di luoghi comuni invasero le nostre case da mattina a sera, eppure, a conti fatti, ci siamo dovuti scontrare con una drammatica verità: siamo e resteremo sempre gli stessi, con i nostri (pochi) pregi e i nostri (molti) difetti. Quello che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo nella realtà è un po’ quanto raccontato – mutatis mutandis – nel nuovo film del Premio Oscar Adam McKay, Don’t Look Up, dove un meteorite diretto verso la Terra è pronto a mettere fine a un’umanità che, se non se l’è propriamente cercata, comunque merita tale capitolazione. Uscito nei cinema lo scorso 8 dicembre, il film sarà disponibile su Netflix dal 24.
Quello di McKay (Vice – L’uomo nell’ombra) è un disaster movie atipico, dove l’avvento di un corpo celeste “impazzito” non lascia spazio ad alcuna forma di eroismo virile (alla Armageddon – Giudizio finale, tanto per intendersi), ma diviene il pretesto per descrivere una società umana allo sbando dove l’apparire e l’avere hanno ormai soppiantato l’essere più autentico. Un’umanità rimbecillita che attende inebetita la fine del mondo, governata da deficienti e condizionata da improbabili guru tecnologico-spirituali e un sistema mediatico tanto superficiale quanto stupidamente rassicurante. In un mondo votato all’assurdo, la scienza è ovviamente bistrattata; l’astronomia è considerata al pari dell’astrologia, e gli scienziati ovviamente un manipolo di fanatici imbroglioni totalmente inaffidabili.
La dott.ssa Kate Bibianski (Jennifer Lawrence), dottoranda presso l’Università del Michigan, scopre accidentalmente l’esistenza di un asteroide diretto verso la Terra. Insieme al suo mentore, il prof. Randall Mindy (Leonardo DiCaprio, superlativo), cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica sui rischi che il pianeta sta correndo, ma nessuno sembra darle credito. Neppure il governo degli Stati Uniti, capitanato dalla presidentessa Janie Orlean (Meryll Streep), affiancata dall’inetto capo di gabinetto Jason (Jonah Hill), pare particolarmente interessata alla minaccia, almeno finché l’imprenditore visionario Peter Isherwell (Mark Rylance) non intravede nell’asteroide una potenziale fonte di guadagno.
«Una risata vi seppellirà», così recitava la celebre frase attribuita all’anarchico sovietico Michail Bakunin. Massima che Adam McKay erge a manifesto della sua invettiva cinematografica contro un’umanità non solo sciocca ma anche, se non soprattutto, incosciente. Don’t Look Up è un film a tesi, una sorta di pamphlet acre sulla falsariga di quanto già fatto dal regista con La grande scommessa. Ma, se quest’ultimo traeva spunto da un accadimento ben preciso (la crisi economica del 2008), scomponendolo e ricomponendolo attraverso il mezzo cinematografico per analizzarne le cause profonde, il nuovo film Netflix si limita ad essere un j’accuse disperato che, sebbene prenda anch’esso spunto dalla realtà, risulta eccessivamente fine a se stesso (e questo nonostante la tesi di fondo sia condivisibile).
Il racconto è contrappuntato da una serie di sequenze “spurie”, all’apparenza estranee alla narrazione ma profondamente connesse con il messaggio alla base del film: ad esempio, fabbriche che emettono gas tossici nell’atmosfera e immagini che descrivono le drammatiche conseguenze del cambiamento climatico. Di fatto, l’asteroide che minaccia la Terra in Don’t Look Up non è altro che una metafora di quanto già si è abbattuto sul nostro pianeta, le cui conseguenze sono davanti agli occhi di tutti: desertificazione, innalzamento del livello dei mari, surriscaldamento globale, inquinamento, povertà. Tutti aspetti diversi tra loro – ma inevitabilmente legati – che stanno mettendo realmente a rischio il nostro futuro.
Proposito assai nobile quello di McKay, la cui forza però si disperde durante la visione. Se la prima parte del film – contraddistinta dal giusto bilanciamento tra realismo e farsa – è quella più riuscita, la svolta demenziale coincidente con l’entrata in scena dell’improbabile presidentessa degli Stati Uniti regge finché supportata dall’inventiva. Inevitabilmente, quando quest’ultima viene meno il film perde consistenza: la crudeltà lascia il posto a una riottosità senile e, in generale, la lucida invettiva che ci si sarebbe aspettati si appanna, e l’ironico cinismo è soppiantato dallo sberleffo. Ed è probabilmente proprio nella carenza di idee originali che Don’t Look Up tradisce le aspettative. Nella parte centrale, ad esempio, il film si perde; gira a vuoto, cercando di tenere alta l’attenzione dello spettatore proponendosi come un adattamento comico-distopico della realtà caratterizzato da una comicità spesso di bassa lega, non dissimile rispetto a quella tanto cara ai cinepanettoni di casa nostra (senza riferimenti escatologici, per carità).
Così, dopo la presentazione di una presidentessa degli Stati Uniti a metà strada tra Donald Trump e Sarah Palin, in sequenza troviamo: un’improbabile show televisivo condotto da due giornalisti (Cate Blanchett e Tyler Perry) più interessati alla storia d’amore tra i cantanti Riley Bina (Arianna Grande) e DJ Chello (Kid Cudi) che non al disperato grido di allarme lanciato da Kate e Randall, un folle Marine (Ron Perlman) incaricato di distruggere la minaccia proveniente dallo spazio e, last but not least, un visionario innovatore che tanto (troppo!) somiglia a Steve Jobs (pace all’anima sua), Ceo di un’azienda ipertecnologica che non offre solo servizi, ma ruba anche informazioni ai suoi clienti (ogni riferimento a Apple o Google riteniamo non sia casuale).
Tutte caratterizzazioni divertenti, ma che in qualche modo fanno deragliare il film, allontanandolo da quelli che dovrebbero essere i suoi intenti. E quando Don’t Look Up torna in carreggiata, nell’ultima parte (efficace), è ormai troppo tardi. Non basta neppure la furtiva entrata in scena di un giovane nerd complottista interpretato da Timothée Chalamet (recentemente Paul Arrakis in Dune) a ravvivare una narrazione che si inceppa e fa emergere un po’ di rammarico nei confronti di un film sicuramente interessante, a tratti divertente ma che sembra indeciso su quale strada prendere. Un film forse troppo “di pancia” con il quale McKay non riesce a replicare il miracolo de La grande scommessa.
Troppo spesso i critici non capiscono che le cose semplici sono le più comprensibili, il film è diretto a tutti e cerca di essere compreso da tutti o almeno da più persone possibile, pertanto deve avere questi toni per essere gradevolmente compreso.
Non è diretto a una elite onanistica di “super mega (pseudo) intellettuali”, che magari si vorrebbero godere un film paccoso di 6 ore in bianco e nero ed in lingua kazaka.
Caro lettore, perdona il ritardo nella risposta. Intanto ti ringrazio per aver letto la mia recensione e per avermi definito un “critico” (ufficialmente sono un semplice appassionato, nulla di più). Ognuno di noi ha un proprio metro di giudizio per valutare un film, che è frutto un po’ del nostro gusto personale, un po’ dei nostri studi, un po’ delle nostre esperienze. Nonostante il film di Adam McKay non mi abbia fatto impazzire, come ho anche scritto nella recensione, rispetto un parere diverso diverso dal mio, e anzi è proprio dal confronto che nascono spesso gli stimoli e le suggestioni più interessanti. La critica (o pseudo-critica, fatta però con giudizio) serve proprio a questo. Inoltre, sei hai avuto modo di leggere le mie recensioni potrai notare che in esse non vi è alcun atteggiamento spocchioso da (pseudo) intellettuale, anzi, mi permetto di dire che emerge proprio il contrario. Devo ammettere invece una lacuna sui film kazaki di 6 ore in lingua originale. Cercherò però di recuperare 😉