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Dogman, recensione del film di Luc Besson

La recensione di Dogman, il nuovo film di Luc Besson interpretato da Caleb Landry Jones, presentato in Concorso a Venezia 80. Dal 5 ottobre al cinema.

Che Luc Besson fosse un regista versatile, lo si era capito anche senza Dogman. Chi lo segue da un po’ lo sa: quando ci si accosta a un suo film bisogna farlo con l’idea di mettersi nelle mani di un autore che segue le sue voglie. Affronta generi diversi, trova uno stile difficilmente categorizzabile. Nel bene o nel male i suoi sembrano sempre progetti di passione. Anche questa nuova opera sembra uno sfizio. L’idea è quella di fare un suo supervillain con un world building che ricorda un po’ quello di Shyamalan per la trilogia di Unbreakable. Trama originale, personaggi anche, e una scala ridotta delle azioni. Non c’è un mondo da salvare ma una piccola faccenda personale da risolvere.

Togliamo subito ogni dubbio, anche perché sono proprio i materiali promozionali a indugiare con questa somiglianza: quello che Besson ha voluto portare all’80esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia è il suo, personale, folle, strampalato, Joker. Purtroppo però quasi nulla funziona come dovrebbe. Prima c’era Arthur Fleck, uno “sconfitto” di Gotham City. Vittima delle violenze e delle discriminazioni, ha incanalato la sua rabbia in una sorta di contro movimento anarchico-rivoluzionario a fine film. Al posto suo ora c’è Douglas (interpretato da un fin troppo virtuoso Caleb Landry Jones) si fa chiamare Doug. Un nome di comfort, che richiama i “dog”, i suoi amati cani. Viene arrestato e rinchiuso in una cella a inizio film. Di fronte a lui una psichiatra con il compito di capire la storia di quest’uomo catturato a bordo di un camion pieno di cani, truccato e vestito da donna. È in sedia a rotelle, con le gambe cinte da un tutore metallico. La sua figura è la fine di una scia di sangue. Insieme, paziente e terapista, dovranno giungere alla verità.

Se leggendo la premessa di Dogman viene alla mente l’incontro alla base de Il silenzio degli innocenti, significa che si è entrati nel gioco. Besson accumula infatti ispirazioni (molto più che semplici citazioni) come se non volesse proprio usare dei colori personali, bensì comporre la propria originalità prendendo quanto fatto da altri. Dicevamo che Joker di Todd Phillips segna i contorni, ma c’è molto altro. Dentro, in maniera artificiale come dei prompt dati in pasto a un programma di sceneggiatura governato da intelligenza artificiale, ci sono suggestioni da Il padrino (con un richiamo diretto in colonna sonora) quanto da Mamma, ho perso l’aereo con un finale slapstick. La sua famiglia di 100 cani si muove e recita come ne La carica dei 101, ma la fotografia e l’atmosfera sono dure come quelle dei film di serie B con i cartelli della malavita e contro gli antieroi.

Fuggire a ogni possibile definizione

Proprio l’essere inqualificabile, il suo fuggire a ogni possibile definizione o incasellamento di genere, è la forza maggiore del film. Un pastiche che richiama sì un certo cinema degli anni ’90, ma anche una minestra riscaldata composta da ingredienti stridenti. Dogman è infatti un film fatto di grida, sporco e citazioni. Nessuna di queste tre cose va veramente a segno in un cinefumetto senza fumetto. Nonostante un ringraziamento sui titoli di coda a Matteo Garrone, lo spettatore si guardi bene dal cadere in inganno: nulla ha a che spartire con l’omonimo film del 2018.

Senza grazia, ci immergiamo in un lungo flashback narrato da Doug stesso a una psichiatra dalla discutibile professionalità. Ascolta, interroga, sembra fondamentale. Eppure il criminale non oppone mai alcuna resistenza nel rivelare tutte le informazioni necessarie al proseguimento della trama. Il motivo che adduce per giustificare questo suo atteggiamento è decisamente insufficiente: ha fiducia perché loro due hanno qualcosa in comune. Un po’ come Rorschach di Watchmen, Doug è sopravvissuto a un’infanzia violenta. Anzi, violentissima! Il padre, fervente cattolico e devoto alla botte, l’ha rinchiuso nella gabbia dei cani per punizione. Loro sono diventati i suoi amici. Gli unici di cui si fida. Come recita il cartello iniziale: “Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”.

Questo spunto viene subito tradito per parlare di altro. Doug, che dovrebbe essere isolato dal mondo perché respinto e ferito da esso, è invece ancora attratto dagli esseri umani, prova desideri di gelosia, voglia di rivalsa e orgoglio che sono estranei al mondo animale. I cani di cui si circonda sono alla stregua di super armi. Hanno capacità cognitive esagerate; capiscono ordini dettagliatissimi come andare a prendere oggetti o ingredienti, sono capaci di eseguire piani complicati. Per come la scena è girata siamo vicinissimi al territorio di Come cani e gatti, bizzarro film del 2001. Il che andrebbe anche bene, se intorno ci fossero elementi narrativi che concorrono allo stesso proposito.

Un film dilaniato dalle sue assurde ambizioni

Invece Dogman viene costantemente e incessantemente dilaniato dalle sue assurde ambizioni. Da un lato tira la giacchetta la commedia slapstick, che esplode sul finale, nell’altra direzione c’è l’azione più seria. Un altro lembo è tirato in un’altra direzione dalle convenzioni del genere thriller basato su un antieroe psicopatico, un altro ancora viene forzato dalla ricerca di estetica fine a se stessa. Ci sono parentesi con canzoni che sono alla stregua di videoclip musicali. A far deflagrare l’intero organismo filmico già deformato è però la serietà e l’orgoglio con cui mette in scena le proprie assurdità. Si ride molto in Dogman. Molti spettatori lo faranno del film, e non con il film.

Le simbologie religiose si mischiano a una psicologia da bugiardino che dovrebbe servire a tratteggiare una storia di origini. Si va al limite dell’offensivo, se non per le minoranze prese in causa, sicuramente per l’intelligenza di chi guarda. Qualche esempio non esaustivo. Doug si trucca e frequenta le drag queen perché non ha ricevuto amore dalla madre e ha letto le sue riviste. È attratto sessualmente da chi gli presta attenzioni, sia di sesso opposto che dello stesso sesso, come se l’orientamento derivasse dalle proprie debolezze e non da come si è. È disabile, ma se vuole può mettersi in piedi e accennare qualche passo (una forma sottile di abilismo secondo cui camminare è solo questione di volontà?). Sale anche su un camion. Certo, lo fa a rischio di morire per via di un proiettile fermo nel corpo (ecco qui anche Iron Man) che potrebbe muoversi. Doug sa anche cantare: mima alla perfezione la voce di Édith Piaf. Non si capisce quindi perché in una sequenza a montaggio alternato tra l’esibizione nei panni della cantante e la preparazione nei camerini si senta Caleb Landry Jones cantare Piaf con la sua voce normale.

La leggerezza di un prodotto da popcorn sul divano non si giustifica con un pensiero cinematografico dozzinale. L’atmosfera da proiezione di seconda serata non si ottiene diventando derivativi, bensì puntando tutto sull’originalità. Così alla fine di Dogman resta l’inquietante sensazione che, se veramente si fossero digitati come prompt i film citati in questa recensione, un’intelligenza artificiale non avrebbe fatto fatica a produrre una sceneggiatura più comprensiva della condizione umana di quanto lo sia questa.

Guarda il trailer ufficiale di Dogman

GIUDIZIO COMPLESSIVO

Proprio l’essere inqualificabile, il suo fuggire a ogni possibile definizione o incasellamento di genere, è la forza maggiore del film. Un pastiche che richiama sì un certo cinema degli anni ’90, ma anche una minestra riscaldata composta da ingredienti stridenti. Dogman è infatti un film fatto di grida, sporco e citazioni. Nessuna di queste tre cose va veramente a segno in un cinefumetto senza fumetto. Nonostante un ringraziamento sui titoli di coda a Matteo Garrone, lo spettatore si guardi bene dal cadere in inganno: nulla ha a che spartire con l’omonimo film del 2018. 

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Proprio l’essere inqualificabile, il suo fuggire a ogni possibile definizione o incasellamento di genere, è la forza maggiore del film. Un pastiche che richiama sì un certo cinema degli anni ’90, ma anche una minestra riscaldata composta da ingredienti stridenti. Dogman è infatti un film fatto di grida, sporco e citazioni. Nessuna di queste tre cose va veramente a segno in un cinefumetto senza fumetto. Nonostante un ringraziamento sui titoli di coda a Matteo Garrone, lo spettatore si guardi bene dal cadere in inganno: nulla ha a che spartire con l’omonimo film del 2018. Dogman, recensione del film di Luc Besson