Raccontare una storia attraverso le immagini: dovrebbe essere questo il compito del cinema, la settima arte nata dalla fusione inscindibile tra sequenze e parole, le uniche in grado di evocare mondi sullo schermo d’argento. Una funzione sciamanica, conturbante, il cui fine ultimo è sedurre il pubblico sospendendo l’incredulità di chi guarda attraverso la creazione di mondi plausibili quanto verosimili, al confine tra luce e ombra, reale e immaginario.
Suggestioni che talvolta attraversano febbrilmente le scene che si susseguono ad un ritmo incalzante oppure onirico, sospeso ma anche forsennato, in un vorticoso valzer di contraddizioni che definiscono l’estetica della macchina-cinema più evocativa, quella che non ha bisogno delle parole o di una solida ossatura per raccontare una storia, ma solo della forza delle proprie idee. Esattamente come accade in Disco Boy, suggestiva opera prima firmata da Giacomo Abbruzzese premiata con l’Orso d’argento al 73° Festival Internazionale del Cinema di Berlino per il miglior contributo artistico; un insolito viaggio nell’oscurità delle idiosincrasie che dilaniano l’animo umano compiuto dal protagonista Franz Rogowski (Freaks Out), affiancato dall’esordiente Morr Ndiaye, dall’artista attivista Laëtitia Ky e da Matteo Olivetti (La terra dell’abbastanza).
Il film, in uscita nelle sale italiane dal 9 marzo, focalizza la propria attenzione sul viaggio – fisico ed emotivo – di Aleksei, bielorusso in fuga dal suo passato, che raggiunge Parigi e si arruola nella Legione Straniera per ottenere il passaporto francese. In contemporanea, nel delta del Niger, Jomo – un giovane rivoluzionario – si batte contro le compagnie petrolifere che hanno devastato il suo villaggio, mentre la sorella Udoka sogna di fuggire, consapevole che ormai tutto è perduto. I loro destini si intrecceranno, al di là dei confini, della vita e della morte.
Per apprezzare realmente Disco Boy bisogna essere pronti, in quanto spettatori, ad andare “oltre”: oltre i giudizi legati ai singoli personaggi, oltre le aspettative che si nutrono varcando la soglia della sala, oltre qualunque attrattiva nei confronti di un cinema quintessenziale basato sulla parola e meno sulle suggestioni. Perché Disco Boy è un’esperienza visiva complessa e stratificata, un viaggio – anche questo, sia reale che metafisico – tra i dedali più inconfessabili dell’intimità, i silenzi attraverso i quali il subconscio prova a comunicare il proprio disagio, le metafore ardite ed evocative che tirano in ballo massimi sistemi e secolari tradizioni pronte ad essere infrante, esattamente come l’ordine cosmico di uno status quo arcaico ed archetipico.
L’attenzione dell’occhio meccanico di Abbruzzese si focalizza, principalmente, sull’esperienza di Aleksei, bielorusso misterioso ed ermetico, che scappa dal proprio passato (che non conosciamo, se non per pochissimi dettagli che porta tatuati sulla pelle) insieme ad un compagno di sventure; ma è proprio quando inizia a delinearsi l’ombra nera della morte che separa e divide che Aleksei si lancia nel proprio percorso per diventare Alex, naturalizzato francese, arruolandosi nella legione straniera per ottenere passaporto e cittadinanza.
Orrori della guerra e doppi spettrali
Aleksei che diventa Alex: un primo esempio di doppio, di riflesso spettrale che rincorre lo storytelling del film per la sua intera durata, moltiplicandosi attraverso infiniti frammenti, come in un disturbante caleidoscopio. Doppi sono anche Jomo e Udoka: fratello e sorella con un’inquietante eterocromia, grazie ai loro occhi “sbagliati” acquistano un’aura mistica, sciamanica, come delle creature ultraterrene potenti che si muovono sulla terra per risvegliare coscienze sopite, riportandole alla luce grazie alla forza delle radici, di un passato dal quale Aleksei scappa e che invece loro tentano di rifondare.
Il discorso che articola Jomo, guerrigliero in lotta per la liberazione del Delta del Niger, scomoda gli infausti trascorsi del colonialismo europeo, secoli di sfruttamenti sconsiderati e intensivi che hanno condotto il mondo sull’orlo del baratro dell’apocalisse, suggellando un futuro bacio della morte crudele e macabro tra i due. Giacomo Abbruzzese non fornisce una soluzione per invertire questo processo, ed evita di scomodare il “mito del buon selvaggio” di Jean-Jacques Rousseau tirando in ballo, piuttosto, un altro Rousseau sul piano estetico: Henri, “il doganiere”, l’uomo che immortalava la natura (anche quella umana, compresenza imprescindibile) con tocco naif.
Uomini che sbucano nelle foreste, fino a scomparire nella folta boscaglia; frammenti di luce che somigliano tanto alla pellicola deteriorata, “ferita” dalla luce violenta, quanto ai neon fluo che distinguono i locali e le metropoli notturne, “non-luoghi” della mente nei quali l’inconscio tormentato può nascondersi; e gli scenari di guerra, le ampie vedute panoramiche del Delta del Niger, che finiscono per somigliare al Vietnam del Coppola di Apocalypse Now, in un sinfonico ritorno sul grande schermo dell’eterno topos del “Cuore di tenebra” conradiano.
Ma Disco Boy riesce ad andare, ancora una volta, “oltre”, abbandonando i riferimenti letterari a Conrad lungo il percorso e avvicinandosi all’estetica psichedelica e allucinogena di Coppola, agli orrori della guerra che scindono le anime e le coscienze in doppi spettrali, doppelgänger pronti a rincorrersi per il corso dell’intero film, in un continuo binomio tra vita e morte che riconferma i numerosi dualismi dell’opera prima del suo regista.
E a sottolineare, ancor di più, il fascino perturbante di Disco Boy, ci pensa l’eclettica colonna sonora composta dalla stella della musica elettronica Vitalic: non un semplice insieme di suoni che si limitano ad arricchire (come un orpello) le immagini, ma un vero e proprio tappeto sonoro che trascina nella verticale caduta libera – fin nel cuore di tenebra del maelstrom – lo spettatore, tra synth e sonorità anni ’80 contrapposti al silenzi immoto della natura, i cui rumori creano un contrasto ancor più forte tra opposti contraddittori che si scontrano, generando infine – dal proprio caos – il creato.