Scegliere comporta sempre un rischio. Esporsi, sbilanciarsi, optare per un’opzione piuttosto che per un’altra porta sempre con sé delle conseguenze, i cui effetti si riverberano esattamente come i cerchi disegnati nell’acqua da un sasso, scagliato il più lontano possibile per liberarsi da un’opprimente ansia da prestazione. Ma cosa succede quando le scelte che siamo chiamati a compiere non sono semplici ma complesse, pronte a tirare in ballo il senso etico, la moralità e perfino la nostra concezione di spiritualità, perché prive di vie di fuga privilegiate attraverso le quali scappare per porre rimedio al peso delle nostre azioni?
A partire da premesse così importanti sembra muoversi Dall’alto di una fredda torre, esordio alla regia cinematografica di Francesco Frangipane; con una lunga e solida carriera teatrale alle spalle, quest’ultimo porta sul grande schermo l’inossidabile sodalizio che lo lega a Filippo Gili (autore) adattando un’opera che li ha visti impegnati insieme per lo schermo d’argento, coinvolgendo nel cast anche una delle interpreti originali – Vanessa Scalera (Palazzina Laf) – affiancata alle new entry Edoardo Pesce (El Paraíso), Giorgio Colangeli (C’è ancora domani) e Anna Bonaiuto (Tre piani). Un ricco cast alle prese con un racconto corale che ruota intorno a temi universali, aggiornando archetipi che da sempre attraversano le infinite sfumature dell’arte, sollevando nei fruitori interrogativi e dubbi esistenziali.
Nel film – presentato alla 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma e in uscita nelle sale il 13 giugno – la normalità di una famiglia composta da padre, madre e due figli viene spezzata di colpo da una terribile scoperta: entrambi i genitori sono gravemente malati ma solo uno dei due può essere salvato. Spetta ai figli decidere se comunicarglielo e, soprattutto, decidere chi tenere in vita. Una scelta drammatica, che li obbligherà a fare i conti con il loro passato e che porterà a galla i più feroci istinti.
Un dilemma etico scagliato come una freccia
Dall’alto di una fredda torre parte già da una deflagrante premessa che irrompe nel quotidiano di una famiglia perbene, nella quale ogni spettatore può tranquillamente riflettersi: dovendo scegliere se salvare una madre o un padre da morte certa (per mano, tra l’altro, di una terribile malattia), su chi ricadrebbe la nostra scelta? Subito il dilemma etico viene scagliato come una freccia, dritta nel cuore dello spettatore. E come in un paradosso logico, forse non c’è una risposta plausibile, perché ogni soluzione implica un conflitto, una contraddizione, un fallimento nel pensiero trasversale.
Per questo motivo – forse – una risposta non esiste, e Frangipane (complice la drammaturgia di Gili) non intende nemmeno cercare di fornirla, rassicurando in tal modo il pubblico nel corso della visione; au contraire, l’abilità sta nel creare un’empatia con i personaggi, un transfert ideale che permette l’immedesimazione e la successiva catarsi, che si compie osservando (da un punto di vista lontano e privilegiato) il loro destino mentre si compie, tragico e ineluttabile, esattamente come il peso della scelta che li attende.
Con Dall’alto di una fredda torre siamo nei territori della tragedia greca, con i suoi archetipi che rivivono sulla scena permettendo un’immersione totale negli eventi che vengono raccontati: Antigone, Edipo, Ippolito, Ifigenia rivivono sullo schermo direttamente dal passato, e sono tutti figli alle prese con sensi di colpa e gravitas, vittime di un destino beffardo e di divinità remote che giocano intrecciando, in modi imprevedibili e crudeli, i fili delle loro esistenze, orchestrando rapporti genitoriali complessi, spesso malsani, al limite del canonico e fortemente permeati da dubbi.
Alla lista bisognerebbe aggiungere, oggi, anche Antonio ed Elena, i due gemelli interpretati rispettivamente da Edoardo Pesce e Vanessa Scalera, perfettamente simbiotici e affiatati davanti alla macchina da presa. Come i dioscuri, si ritrovano ad affrontare degli eventi più grandi di loro, chiamati da un demiurgo pantocratore (o da indefinite divinità olimpiche, restando nel mondo tragico greco) a compiere un destino del quale ignorano le conseguenze, incapaci di compiere una scelta che frammenta la secolare concezione della nostra ragion pratica.
Frangipane aggiorna quindi gli archetipi ad oggi, alla modernità dei nostri tempi, instillando dubbi senza mai fornire risposte (benché meno consolatorie); si ispira al mondo dei tragici greci ma si scorgono anche echi di altri generi teatrali nella scrittura (sia per immagini che drammaturgica), dal teatro dell’assurdo e dell’incomunicabilità di Beckett, passando per il dramma borghese ottocentesco di Ibsen e Strindberg fino al Kitchen sink drama degli anni ’60, dell’Osborne dei giovani ribelli.
Scenari metafisici, immersi in una solitudine profonda
Dall’alto di una fredda torre è teatro pur liberandosi della gabbia – e dei vincoli – del palcoscenico, frammentando l’integrità spazio-temporale aristotelica fino ad abbandonarsi ad un respiro più ampio, onirico, che guarda alla forma delle metafore e delle allegorie. Ed ecco allora che, in quest’ottica, il viaggio del cavallo bianco Dario acquista un altro senso, esattamente come la scalata compiuta tanto dai genitori (in gioventù) quanto dai figli in un secondo momento: una salita verso la montagna sacra – citando Jodorowsky – oppure una discesa nel cuore degli inferi, come nell’eterno mito di Orfeo ed Euridice, a seconda del punto di vista che si sceglie di adottare.
Il peso delle nostre scelte e, di conseguenza, la facoltà che abbiamo di compierle: il libero arbitrio è un altro dei leitmotiv di Dall’alto di una fredda torre, con i gemelli Antonio ed Elena che, ancora una volta proprio come due personaggi da tragedia, sono investiti di quest’arduo compito da due figure – la coppia di medici che ha in cura i genitori, interpreta da Elena Radonicich e Massimiliano Benvenuto – che ricordano il distacco delle divinità dell’epos, austeri e lontani, loro sì pronti ad osservare le conseguenze delle loro decisioni proprio dall’alto di una fredda torre remota; e questo contrasto tra le varie coppie mostrate – i gemelli, i loro genitori, i medici – non fa altro che acuire il conflitto tra ragione e sentimento, cuore e testa, creando un dibattito nel quale ognuno può inserirsi, riflettendo sul peso delle proprie scelte nel momento in cui siamo noi stessi a decidere, senza nessun fatalismo, svincolati dall’idea di un destino opprimente.
E questa improvvisa assenza genera un vuoto, un senso di straniamento nell’essere umano, paragonabile solo all’affermazione nietzschiana “Dio è morto”: l’uomo è davvero solo ed è l’unico fautore tanto delle proprie fortune quanto delle sfortune che deriveranno dalle sue scelte. Per tale ragione, probabilmente, i personaggi che popolano Dall’alto di una fredda torre si muovono in scenari metafisici, immersi in una solitudine profonda che si riflette anche nelle loro esistenze; isole pronte ad incontrarsi proprio per tale ragione, per ovviare al fatto che siamo soli nell’universo, generando microscopici arcipelaghi emotivi che permettono di sopravvivere, creando affetti stabili da proteggere, ad ogni costo, anche quando ci viene richiesto di prendere una drastica decisione.