giovedì, Novembre 30, 2023
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Dalíland, recensione del film con Ben Kingsley nei panni di Salvador Dalí

La recensione di Dalíland, biopic sul celebre pittore spagnolo Salvador Dalì interpretato da Ben Kingsley. Dal 25 maggio al cinema.

Si può dire che qualsiasi biopic parta sconfitto in partenza, soprattutto se a essere protagonista è un personaggio straordinario, eclettico e di difficile classificazione come Salvador Dalì. Cosa mettere in evidenza della vita di un grande artista? Cosa trascurare? Quali comprimari inserire?

La prima, fondamentale scelta è quella del periodo da trattare, che è un po’ l’equivalente di cosa inquadrare in fotografia: a seconda del segmento temporale scelto, potrà emergere un ritratto di un certo tipo piuttosto che un altro. Mettendo a fuoco la più lunga permanenza newyorkese di Dalì, trascorsa all’hotel St. Regis negli anni Quaranta, la regista Mary Harron (assieme al marito John C. Walsh, che firma la sceneggiatura) sceglie consapevolmente di concentrarsi su una piccola, spettacolare e decadente parte della vita del genio surrealista, quella forse più nota e interessante per il grande pubblico.

Una veterana del biopic come la Harron (dal 1996 ha portato sul grande schermo Warhol, la pinup Bettie Page, Charles Manson e l’immaginario ma universalmente noto Patrick Bateman di American Psycho) sa che per approcciarsi a un’icona tanto particolare non basta mettere in scena un prezioso susseguirsi di scene memorabili che raccontano la vita di Dalì, serve un punto di vista che consenta di avvicinarsi quasi voyeuristicamente all’artista.

E così inventa il personaggio di James Linton, giovane stagista di una galleria d’arte scelto casualmente da Dalì come suo assistente personale per la sua nuova mostra. Attraverso gli occhi di James lo spettatore ha così modo di entrare da una “porta di servizio” in Dalíland, un mondo fatto di scintillanti festini ed eccessi, creatività compulsiva e contingenti esigenze economiche, follia e talento.

Un biopic non eccessivamente tradizionale

La messa in scena, minuziosa e barocca, del mondo di Dalì, è il primo punto di forza del film: l’attenzione ai (tantissimi) costumi, all’impeccabile trucco e alle scenografie squisitamente vintage, unita a una fotografia “empatica”, ora calda e pastosa, ora blu e pallida, contribuiscono a dare vividezza al contesto in cui si muovevano l’artista e la sua corte di seguaci, conferendo alle vicende un fondamentale realismo. Realismo purtroppo messo in crisi da alcune scelte poco avvedute o non particolarmente riuscite.

Su tutte, i flashback che riportano alla giovinezza di Dalì, che se da un lato sono raccordati al presente da un espediente brillante e poetico, dall’altro stridono con il ritmo del film e hanno come protagonista un Ezra Miller distaccato e poco credibile. Anche i personaggi di James (Christopher Briney) e Amanda Lear (Andreja Pejic), fondamentale musa ispiratrice di Dalì nell’ultima parte della sua carriera, non brillano né per scrittura né per interpretazione, privando così lo spettatore di due importanti punti di riferimento (mentre risultano nettamente migliori le prove di Suki Waterhouse, una delle modelle di cui l’artista si circonda, e Rupert Graves, che veste i panni dell’impresario di Dalì).

Tuttavia alla Harron queste sbavature, inclusa una narrazione un po’ sincopata, sembrano interessare poco – e alla fine anche lo spettatore meno esigente se ne disinteresserà – concentrata com’è sull’aspetto senza ombra di dubbio meglio riuscito di Dalíland, nonché principale motivo per vederlo: la straordinaria performance di Ben Kingsley e Barbara Sukowa. I due attori, che riportano letteralmente in vita Dalì e l’enigmatica Gala, sono protagonisti dei dialoghi e dei momenti migliori e più emozionanti del film. Di Dalì scorgiamo, attraverso la tela del volto di Kingsley, la superficie e l’abisso: da un lato le feste, i colori, la musica, la teatralità della sua vita pubblica, dall’altro la profonda solitudine e malinconia di un essere umano meravigliosamente incoerente, che oscilla tra divertimento e ispirazione, indolenza e frenesia produttiva, oltre il cui sguardo si intravede nitidamente un pensiero lucido e beffardo.

Ma Dalì forse non sarebbe mai esistito senza Gala, personaggio a tratti più interessante e sfuggente dell’artista stesso, che nel corso della sua vita ha ispirato dozzine di personalità straordinarie (Paul Éluard, Man Ray, Robert Desnos, Rene Creval, Giorgio de Chirico, Max Ernst e molti altri) e che dagli anni Trenta diventa mentore, musa, manager e mercante d’arte per Dalì, cui sarà legata per il resto della sua vita. Sukowa è straordinaria nell’interpretare questo personaggio, il cui fascino e la cui energia hanno fatto sì che il genio di Salvador Dalì emergesse, venisse conosciuto e poi apprezzato in tutto il mondo.

Il rapporto di interdipendenza tra i due, a tratti fanciullesco a tratti misterioso, è il vero perno del film: è questo legame fortissimo e unico, più che la prospettiva tutto sommato trascurabile di James Linton, ad aprire un varco verso l’arte e la personalità di Dalì, incuriosendo chi lo scopre per la prima volta e regalando un ritratto vivace e toccante a quanti già conoscono e apprezzano la sua opera.

Guarda il trailer ufficiale di Dalíland

GIUDIZIO COMPLESSIVO

Al netto di alcune scelte poco azzeccate o riuscite e dell’inevitabile impossibilità di raccontare compiutamente un genio di questa portata, Dalíland è un biopic ben realizzato, non eccessivamente tradizionale, con diverse scene degne di nota e momenti toccanti e di forte intimità, che vede nella magistrale interpretazione di Ben Kingsley e Barbara Sukowa il suo maggiore punto di forza: nel rapporto tra Dalì e la sua musa Gala c’è infatti un intero universo di arte, vita palpitante e genialità raramente reso così bene su grande schermo.

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