Giovani attori crescono. La prossima estate saranno cinque anni esatti dalla prima distribuzione, su Netflix, di Stranger Things. Una serie di culto che ha riscosso fin da subito un notevole successo, e che ha messo in bella mostra un gruppo di giovani attori capaci con il tempo di confermarsi ad alti livelli anche al di fuori dell’opera dei fratelli Duffer: tra questi, Millie Bobby Brown/Undici (Enola Holmes), Finn Wolfhard/Mike (IT – Capitolo primo) e last but not least Caleb McLaughlin/Lucas. Proprio quest’ultimo è protagonista, insieme ad Idris Elba, del nuovo film Netflix Concrete Cowboy, disponibile dal 2 aprile sulla piattaforma.
Tratto dal romanzo Ghetto Cowboys di Greg Neri, il film è diretto dall’esordiente Ricky Staub, anche sceneggiatore insieme a Dan Walser. Non si tratta propriamente di un western, anche se il mito dei cowboy – più che quello della frontiera – è al centro di una vicenda ambientata all’interno della comunità facente parte della cosiddetta “Le stalle di Fletcher Street“, un’organizzazione no profit gestita da moderni mandriani che da un secolo gestisce una scuderia di cavalli alla periferia della città di Philadelphia.
Cole (Caleb McLaughlin) è un adolescente problematico costretto dalla madre a passare l’estate dal padre cowboy Harp (Idris Elba). I due sono praticamente estranei – i genitori si sono separati quando il figlio era ancora piccolo -, e ricucire il rapporto sembra un’impresa impossibile a cui né Cole né Harp, fin troppo severo con il figlio, sembrano particolarmente interessati. Lentamente, però, Cole comincia ad entrare in sintonia con la comunità di cui Harp è uno dei leader, iniziando a comprendere gli ideali che la animano. Avvicinandosi, così, al genitore.
Sulla descrizione del rapporto tra padri e figli, al cinema, si potrebbero scrivere un’infinità di saggi. Per certi versi potremmo quasi definire il father and son movie un genere (o un sottogenere) codificato, con i suoi cliché narrativi: iniziale diffidenza tra i due protagonisti, progressivo discioglimento delle rispettive incomprensioni, cristallizzazione di un rinnovato rapporto di fiducia. Step narrativi che si ritrovano anche in Concrete Cowboy. Il film di Ricky Staub si affida quindi a un modello già rodato, limitandosi a puntare tutto sulla singolare ambientazione: un pezzo di Frontiera alle porte della sesta città più popolata degli Stati Uniti, abitato da una comunità che sembra vivere fuori dal tempo.
Ed è effettivamente l’ambientazione la cosa più interessante di un film non particolarmente riuscito. Pur durando quasi due ore, Concrete Cowboy disperde un sacco di tempo per descrivere la comunità di moderni cowboy – la cura dei cavalli, le serate attorno al fuoco, le schermaglie con la polizia – finendo per relegare in secondo piano il rapporto tra Cole e Harp. L’avvicinamento tra i due è così repentino – e per certi versi neanche sottolineato a dovere – che il film si conclude senza che tra padre e figlio ci sia mai stata una “resa dei conti” vera e propria. Le psicologie dei personaggi sono ridotte all’osso e anche per questo, da spettatori, è pressoché impossibile entrare in sintonia con loro.
Al di là della suggestiva ambientazione, Concrete Cowboy ha così come unico motivo d’interesse la bravura di due attori – Elba e il giovane McLaughlin -, che riescono nell’impresa (assai ardua) di animare i loro personaggi al di là dei loro intrinseci limiti. Ma è francamente un po’ poco per un’opera che avrebbe potuto sfruttare meglio il suo potenziale (sulla carta comunque notevole) e che invece sembra indecisa su che strada prendere: privilegiare un realismo quasi documentario (molti interpreti sono non professionisti presi dalla strada) o concentrarsi su una messa in scena più emotiva? La soluzione più “semplice” sarebbe stata quella – come insegna, d’altronde, anche il Neorealismo italiano -, di far dialogare le due istanze. Cosa che purtroppo Concrete Cowboy non riesce a fare.