mercoledì, Settembre 11, 2024
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Close, recensione del film di Lukas Dhont

La recensione di Close, il nuovo film del regista belga Lukas Dhont, che torna al cinema cinque anni dopo Girl. Nelle sale dal 4 gennaio.

Raccontare le contraddizioni della vita nelle sue molteplici sfumature, scegliendo il linguaggio dell’essenziale… che spesso, come ricordava Antoine de Saint-Exupéry nel suo Piccolo Principe, è invisibile agli occhi. E Lukas Dhont sembra fare propria questa lezione, come dimostra attraverso lo sguardo limpido e cristallino dei giovanissimi protagonisti della sua ultima fatica, Close, nelle sale dal 4 gennaio.

Dopo Girl (2018), il regista belga torna dietro la macchina da presa per raccontare la storia dei piccoli Léo e Rémy, uniti da un’amicizia inossidabile messa a dura prova dalle angherie della vita, che li separano fino a metterli di fronte ad una terribile tragedia orchestrata dal destino. Il film narra una profonda storia di amicizia incentrata sulla ricerca dell’identità, mostrata attraverso il legame tra due ragazzi di 13 anni uniti da un affetto fraterno che li spinge a vivere una quotidianità intima e tenera. Ma un evento inaspettato cambierà per sempre le loro vite, mettendo in discussione il loro legame; un lutto difficile da superare, che costringerà uno dei due a confrontarsi con la realtà e con le proprie emozioni nascoste.

Close sfrutta il raccordo di sguardo e il montaggio in generale per svelare la tenerezza e la levità dei gesti, fino a tessere – come in un complesso arazzo fiammingo – un’elegia delle piccole cose che compongono l’esistenza tanto da definirla, sancendone la forma conclusiva. Nonostante la giovanissima età dei due protagonisti, il racconto del film è ben lontano dal classico (e rassicurante) coming of age onnipresente nel cinema.

La drammatica – e fragilissima – storia di Close non ha un target specifico, scegliendo piuttosto (scientemente) di parlare tanto ai cuori dei più giovani quanto a quelli degli adulti. Un’opera trasversale e stratificata che affonda le radici nel presente che circonda gli spettatori, focalizzando l’attenzione su molti drammi contemporanei (il bullismo, la ricerca della propria identità di genere e sessuale) che dilaniano la società fino a dividerla, scavando fratture insanabili difficili da riempire (perfino con l’oro del Kintsugi).

Un racconto grande ed epico, come la vita stessa

Lo sguardo meccanico di Dhont è asciutto ed essenziale come quello dei fratelli Dardenne, capace di muoversi tra le pieghe del dramma (e le contraddizioni dell’animo) senza mai indugiare nel dolore fine a se stesso, anzi, aspettando in silenzio il momento più opportuno per far deflagrare sentimenti e stati emotivi. La maggior parte del lavoro è affidata agli attori, soprattutto ai due straordinari (e giovanissimi) interpreti Eden Dambrine e Gustav de Waele.

Non solo hanno i volti giusti, ma i loro sguardi riescono a restituire sensazioni recondite e talmente profonde che nemmeno le parole potrebbero svelare senza incorrere nella retorica o nello stereotipo; solo le immagini – e, di conseguenza, i silenzi – hanno la potenza necessaria per riflettere l’Io più profondo, accompagnandolo in un difficile percorso di crescita e di sviluppo dell’auto-consapevolezza nell’ora più buia dell’esistenza. Gli occhi bruni di Rémy e quelli cerulei di Léo sono come scrigni che racchiudono verità non confessate, celate, nascoste e che faticano ad emergere in un humus sociale (e culturale) che ancora fatica ad adattarsi alla fluidità dei tempi; in un mondo che cerca di ricondurre tutto entro stereotipi, topoi ed etichette, i due ragazzini sono i piccoli eroi di una protesta silenziosa alla quale finiscono però per soccombere, dilaniati dalle contraddizioni instillate dalla società, come un veleno che separa anime e cuori.

E la riflessione “microscopica” sulla ricerca di se stessi, del proprio posto nel mondo e sulla scoperta della sessualità acquista un respiro ben più ampio in Close, perché investe gli spettatori coinvolgendoli in prima persona: voyeur privilegiati e silenziosi, spiano in silenzio le sofferenze e la confusione che anima i due protagonisti, assistono poi impotenti al drammatico plot twist che spariglia le carte dell’esistenza interrogandosi, in prima persona, sul proprio ego che finisce per essere messo in discussione.

Quant’è ardua, difficile e complessa la battaglia per affermare la propria identità, se ci troviamo immersi in un mondo che non ha ancora fatto dell’inclusione una consuetudine e del concetto di accettazione un riparo sicuro? Close solleva tante domande, ma dilania l’animo con la potenza essenziale delle proprie immagini, trasformando una piccola storia in un racconto grande ed epico, come la vita stessa.

Guarda il trailer ufficiale di Close

GIUDIZIO COMPLESSIVO

In Close, lo sguardo meccanico di Lukas Dhont è asciutto ed essenziale, capace di muoversi tra le pieghe del dramma (e le contraddizioni dell'animo) senza mai indugiare nel dolore fine a se stesso, anzi, aspettando in silenzio il momento più opportuno per far deflagrare sentimenti e stati emotivi. La maggior parte del lavoro è affidata agli attori, soprattutto ai due straordinari (e giovanissimi) protagonisti: non solo hanno i volti giusti, ma i loro sguardi riescono a restituire sensazioni recondite così profonde che le parole, da sole, non potrebbero svelare senza incorrere nella retorica o nello stereotipo.
Ludovica Ottaviani
Ludovica Ottaviani
Imbrattatrice di sudate carte a tempo perso, irrimediabilmente innamorata della settima arte da sempre | Film del cuore: Lo Chiamavano Jeeg Robot | Il più grande regista: Quentin Tarantino | Attore preferito: Gary Oldman | La citazione più bella: "Le parole più belle al mondo non sono Ti Amo, ma È Benigno." (Il Dormiglione)

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In Close, lo sguardo meccanico di Lukas Dhont è asciutto ed essenziale, capace di muoversi tra le pieghe del dramma (e le contraddizioni dell'animo) senza mai indugiare nel dolore fine a se stesso, anzi, aspettando in silenzio il momento più opportuno per far deflagrare sentimenti e stati emotivi. La maggior parte del lavoro è affidata agli attori, soprattutto ai due straordinari (e giovanissimi) protagonisti: non solo hanno i volti giusti, ma i loro sguardi riescono a restituire sensazioni recondite così profonde che le parole, da sole, non potrebbero svelare senza incorrere nella retorica o nello stereotipo. Close, recensione del film di Lukas Dhont