Giovani spettatori, siete avvertiti: Damien (Anthony Bajon), per tutti “Dog”, protagonista di Chien de la casse, mette rabbia più che compassione, timore più che simpatia. Se avrete il coraggio di guardarlo in viso come ci si guarderebbe allo specchio, imparando a convivere con il riflesso, odioso eppure indispensabile per conoscersi, questo “cane randagio” (è il titolo originale, a seconda del contesto vale come “cane da rissa” o, in senso offensivo, “avanzo da discarica”) vostro coetaneo, “figlio” della Francia del Sud, introverso giocatore di “Fifa 24”, vi attende in sala a partire dal 23 maggio (distribuisce “No.Mad”).
Partecipe già dal prologo delle sue titubanze, delle frasi lasciate a metà o biascicate sottovoce, per arrivare agli sbagli dei più fatali e grossolani, una parte del pubblico penserà forse ai versi del George Gray dall’Antologia di Spoon River (“…il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;/ l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti. […] Dare un senso alla vita può condurre a follia/ ma una vita senza senso è la tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio –/ una barca che anela al mare eppure lo teme”); l’altra, vedendo Dog “mimetizzato” fra i compagni di ciance e vagabondaggi serali nelle anguste piazzette o lungo le viuzze scoscese del borgo occitano de Le Pouget, sfondo della vicenda, rammenterà quei classici (es. I vitelloni, I basilischi) del cinema italiano che, come pochi, hanno saputo raccontare cosa significhi vivere gli anni migliori nel soffocante ventre dell’entroterra, giocare a campana anche dopo i vent’anni seguendo sul lastricato un disegno che non c’è, sentirsi scossi da vari richiami (amici con idee più chiare in fatto di lavoro e matrimonio, il fascino della metropoli, del viaggio all’estero) per restare alla fin fine sempre dubbiosi, immobili, ripiegati sul proprio infelice ego…
Il rapporto fra scelta e volontà, fra scelta e libertà
Nondimeno, al di là di ogni rimando filmico o poetico, del promettente esordio di Jean-Baptiste Durand – scritto a sei mani con Emma Benestan (Hard Shell, Soft Shell) e Nicolas Fleureau (Corporate) – saranno i temi del rapporto fra scelta e volontà, fra scelta e libertà ad imporsi all’attenzione, sintetizzandosi in un’unica, articolata domanda: nell’età storica in cui viviamo, età del narcisismo (incarnata da Dog come anche, in toni diversi, dalle figure comprimarie) non di grandi visioni o prospettive, dove il Pensare e l’Agire paiono irrimediabilmente slegati fra loro, è ancora possibile compiere una scelta chiara, non influenzata, cioè, da fallaci desideri o condizioni esterne inibenti bensì autenticamente ‘nostra’, scaturente dall’interno, dalla parte più riflessiva dell’animo?
Temi ampi, dunque, cruciali nella storia della filosofia (da Plotino a Burke), e diversi passaggi di Chien de la casse ne sono pregni, senza mai stancare, grazie alla cura dei dettagli (scene e immagini sono, rispettivamente, di Benjamín Martínez e Benoît Jaoul), alla precisione del disegno psicologico e all’amara, sottilissima ironia che abbraccia l’insieme: ad esempio, Dog capisce confusamente (complice il dialogo di un film visto di sfuggita in tv) che è giunta l’ora di “scegliere”, l’ora in cui lo specchio di casa è bene che rifletta un uomo, non più un bamboccio ma… fra quali strade si troverà di fatto a dover decidere?
Continuare a vegetare all’ombra di Antoine (Raphaël Quenard, una maschera che resta impressa), fratello più che amico di vecchia data, loquace, ossessivo, con precise idee riguardo all’ipocrisia del corteggiamento, meno squilibrato di quanto sembri, dotato di una severità mordace, perfino crudele, che lo avvicina a certi foschi “contro-maestri di vita” dei romanzi di Sade (benché sia Montaigne a prevalere nelle citazioni) oppure fuggire da lui, dal quieto carcere senza sbarre di Le Pouget e arruolarsi nell’esercito, il che significherebbe in pratica obbedire a nuovi ordini impartiti dall’ennesimo, nuovo “comandante”? È questo solo uno dei tragicomici paradossi che l’opera di Durand presenta, lasciando intuire che alla su accennata domanda (è possibile oggi fare una scelta autentica?) non si può dare che una risposta.
La libertà esiste, va cercata su vie non scontate
Una necessità ineluttabile, di ascendenza calvinista (assimilato in modo originale, Robert Bresson è senz’altro uno dei modelli del trentottenne regista, nativo di Antibes) pare, infatti, stringere gli avvenimenti e i caratteri di Chien de la casse: quasi tutti, in un modo o nell’altro, soggiacciono a qualcosa o a qualcuno, quasi tutti arretrano un attimo prima di pronunciarsi o agire. Quando lo fanno… sbagliano. E una vittima, sempre una vittima, accidentale e “sacrificale” (un asinello nel capolavoro Au hasard Balthazar, qui uno scodinzolante pitbull di nome Malabar), si carica addosso il peso del “peccato”.
La libertà che tanto alacremente si insegue esiste, comunque, e va cercata su tutt’altre vie: la madre di Antoine (Dominique Reymond) percorre quella della Pittura decisa, nel proprio “castello di silenzio”, a ricominciare da capo, dimenticando ogni illusione, falso obbligo (inclusi quelli verso il figlio stesso) o insegnamento, restituendo sulla tela ciò che di prezioso il mondo invisibilmente le dona ogni giorno; la signora Dufour (cameo della pianista Evelina Pitti) cammina invece sul sentiero della Musica e le sue esecuzioni dell’«Allegretto» dalla Tempesta di Beethoven e del Notturno in re bemolle maggiore di Fauré diradano ogni nebbia permettendo alla Grazia di illuminare, seppur per breve tempo, chi le ascolta.
Dalle Donne, allora, traspare un senno maggiore? Charlotte (Mélanie Martinez, ne sentiremo ancora parlare) aprirà un ristorante con successo ed Elsa (Galatéa Bellugi), studentessa di letteratura comparata e amante del cinema, non si farà più mettere i piedi in testa da chicchessia, qualunque cosa accada, né chiederà mai scusa ad un cane, a quattro o a due zampe. Buono a sapersi, ma non basta. Da segnalare, infine, la bella partitura di Delphine Malausséna e Hugo Rossi dove risuonano echi di Bruno Coulais, Ezio Bosso e Pepo Scherman (degli ultimi due compositori si riascolti l’uso degli archi in Io non ho paura).