Stephen Chbosky è un regista che durante la sua carriera ha dimostrato di possedere un istinto unico nel raccontare le difficoltà dell’adolescenza. Guardando ai primi due film da lui diretti, Noi siamo infinito (2012) e Wonder (2017), si percepisce il suo amore per le storie incentrate sui giovani e sul problema dell’isolamento e dell’emarginazione, storie che per essere raccontate necessitano inevitabilmente di una profonda sensibilità emotiva.
Ancora una volta, dunque, lo scrittore, regista, sceneggiatore e produttore mette a disposizione la sua visione artistica per scandagliare in maniera diretta le difficoltà che i ragazzi di oggi affrontano quotidianamente, adattando per il grande schermo il musical Dear Evan Hansen di Steven Levenson e Pasek & Paul, sceneggiato dalla stesso Levenson e interpretato da Ben Platt, attore e cantante statunitense, noto per la saga di Pitch Perfect e la serie The Politician, già protagonista del musical originale a Broadway.
La storia del film (che in Italia arriverà dal 2 dicembre col titolo Caro Evan Hansen) è quella, appunto, di Evan Hansen, un adolescente che soffre di fobia sociale. Un giorno, in maniera del tutto inaspettata, si ritrova immischiato nel suicido di un compagno di scuola, Connor, da sempre ritenuto un pessimo soggetto. Per una fortuita coincidenza, la famiglia del ragazzo morto crede che Evan sia sempre stato un suo grande amico.
Così l’ansioso e solitario protagonista, spinto da un intento nobile (quello di riavvicinare la famiglia di Connor), fingerà di essere stato davvero il suo migliore amico, facendosi travolgere da una serie di eventi che, alla fine, lo porteranno a doversi confrontare con se stesso e con la confusione e la crudeltà di un’epoca travolta dai social media, riuscendo comunque a lanciare un messaggio carico di speranza.
Quello di Dear Evan Hansen (presentato come Evento Speciale alla 16esima edizione della Festa del Cinema di Roma) è un racconto che si snoda provando a fare leva su una serie di emozioni universali che si ricollegano ad altrettanti argomenti più o meno scottanti che riguardano da vicino gli adolescenti di oggi e i loro problemi, tra disturbi d’ansia, solitudine abietta e il bisogno corrosivo di essere popolari online, attraverso i social. L’adattamento di Chbosky affronta tutte queste tematiche con un’evidente e spiccata sensibilità, ma finendo per calcare troppo la mano sulla drammaticità di situazioni ed eventi.
La sensazione è che Chbosky abbia voluto enfatizzare ogni singolo elemento della storia, portando all’estremo perfino l’interpretazione di Ben Platt, il cui ritratto del protagonista, nonostante la pregressa esperienza a teatro, risulta eccessivamente caricato (inoltre, considerata la sua età, gli è impossibile risultare davvero credibile nei panni di un liceale). Il cast di supporto riesce a svolgere un lavoro decisamente più misurato, a cominciare dalle navigate Julianne Moore e Amy Adams, fino ad arrivare alle giovani Kaitlyn Dever e Amandla Stenberg, che si erano già fatte apprezzare rispettivamente ne La rivincita delle sfigate e Il coraggio della verità – The Hate U Give.
Ancora, il racconto viene appesantito – neanche a dirlo – dalla colonna sonora e da come ogni singola canzone si inserisce nella struttura narrativa. I momenti musicali sembrano avere come unico scopo quello di esasperare il disagio e la sofferenza che caratterizza la vita di questi adolescenti (e degli adulti che li circondano): di conseguenza, il ritmo è assai discontinuo e la narrazione priva di reale efficacia, inficiata da un’amplificazione dell’elemento drammatico che in diversi passaggi risulta, a tratti, quasi insostenibile.
La mancanza di una colonna sonora trascinante, in grado di restare impressa nella mente dello spettatore, è quindi la cosa che lascia più interdetti alla fine della visione di Dear Evan Hansen (nonostante il coinvolgimento di Pasek & Paul, noti per La La Land e The Greatest Showman, la maggior parte dei brani risultano ripetitivi e tediosi). Tuttavia, c’è un altro aspetto che impedisce al film di centrare pienamente il bersaglio: l’arbitrarietà e la superficialità con cui sembra voler risolvere gli innumerevoli conflitti dei suoi personaggi.