Candyman è tornato per turbare gli incubi del pubblico a distanza di ben ventinove anni dall’uscita del film omonimo diretto, nel 1992, da Bernard Rose e che vedeva protagonisti Virginia Madsen e Tony Todd. Questa volta, dietro la macchina da presa, troviamo la regista Nia DaCosta (già confermata al timone del sequel di Captain Marvel) e la supervisione di Jordan Peele (Scappa – Get Out, Noi) pronto a curare la scrittura del copione – insieme a Win Rosenfeld – e la produzione del progetto. Il film, che vede protagonisti Yahya Abdul-Mateen II (Aquaman), Colman Domingo (Se la strada potesse parlare) e Teyonah Parris (WandaVision), è uscito sale italiane il 26 agosto.
Definito dallo stesso Peele come una sorta di “sequel spirituale” del precedente film omonimo del ’92, anche questa nuova versione di Candyman è ambientata a Chicago, nel quartiere Cabrini-Green che un tempo era una zona degradata della città e ora si è trasformata in una location “in” dove vive Anthony, un artista talentuoso sempre in cerca di ispirazione per le sue opere, insieme alla sua compagna Brianna. Ma la macabra leggenda di Candyman, oscura presenza che uccide brutalmente chi lo evoca dopo aver pronunciato cinque volte il suo nome in uno specchio, affascina talmente tanto Anthony da spingerlo a capire se esista davvero oppure no. Ma Candyman è fin troppo reale, e il pittore non sa che sta cercando un sostituto pronto a prendere il suo posto.
Sofisticato, impegnato e disturbante: il nuovo Candyman può essere dipinto attraverso questi tre aggettivi, riconfermando ancora una volta la capacità del genere horror di raccontare la realtà attraverso la lente deformante del genere, interpretando l’attualità con il grimaldello del perturbante freudiano e dell’incubo oscuro che si annida nel nostro riflesso nello specchio. Ma la vera debolezza, in questo nuovo horror moderno e contemporaneo, si annida in modo meschino proprio nel suo punto di forza, nella potenza evocativa, estetizzante e grafica delle immagini che raccontano una storia inficiando, però, il ruolo della sceneggiatura. Nel lavoro della DaCosta sulla regia, nella ricercata scelta di inquadrature evocative e disturbanti, si sente l’eco di un cinema che attraversa tanto le opere dello stesso Peele quanto quelle di Ari Aster (Hereditary – Le radici del male, Midsommar – Il villaggio dei dannati), due dei nomi di punta di una new wave del cinema dell’orrore.
Luci che, come nella lezione dell’espressionismo tedesco, disegnano gli spazi e definiscono le atmosfere; (non) luoghi hopperiani e metropolitani accarezzati dalle luci a neon, solitudini gravide di segni e minacce, metafore viventi di una notte perpetua – e plumbea – che trasfigura la realtà in un incubo ad occhi aperti: in Candyman è lo spazio a suggerire il tono del film, e Cabrini-Green – il quartiere periferico di Chicago che fece da sfondo anche all’originale – ritorna qui in una veste nuova, sfavillante ma non meno inquietante e cupa, perfetto set naturale per una storia di ossessioni, maledizioni e crudeltà. E se l’immagine è la chiave d’interpretazione dell’intero film, non si può trascendere dal ruolo che l’arte stessa ricopre all’interno della “saga” (composta da questo nuovo titolo, l’originale del ‘92 e ben due sequel): il mondo dell’arte, la sua vacuità quanto la natura sperimentale, la voglia di scioccare ad ogni costo cercando anche il sensazionalismo mediatico non sono altro che gli specchi perfetti della nostra era, simboli di un’epoca dominata dai social media, dalla potenza delle immagini e dalle TV del dolore affamate di cronaca nera.
E proprio in quest’ultima affonda le proprie radici il cuore di Candyman, dalle quali si dipana poi un intero albero di riferimenti extra-testuali e crossmediali: le violenze del passato subite dall’uomo con uncino sono specchio delle odierne tensioni razziali negli stati uniti del XXI Secolo, innescando un ciclico Eterno Ritorno dell’Uguale dal sapore macabro, un continuum di violenza che genera violenza per difendersi, in qualche modo, dalla sopraffazione. Una distruzione socio-culturale e politica che ben mostra la DaCosta attraverso il suo racconto filmico, indebolito però da una scrittura che, vittima forse dei troppi input in gioco, non riesce a sostenere il peso dell’intera drammaturgia. Si ha la sensazione di assistere ad un racconto per frammenti, sequenze sospese in spazi e tempi anche lontani tra loro – per natura tematica e semantica – che rendono il ritmo altalenante e instabile, complice una costruzione dei personaggi troppo semplicistica e lontana da un vero approfondimento psicologico.
I protagonisti di Candyman rischiano di sembrare delle piatte marionette asservite al racconto di una storia larger than life, marionette nelle mani di un Demiurgo Pantocratore superiore oppure semplici tasselli di un mosaico di metafore e allegorie. E se il film originale riusciva a raccontare tante storie (e temi) diversi attraverso la lente del film commerciale e di genere, quello che è stato definito come il suo “sequel spirituale” (o un reboot creativo, potremmo anche azzardare) non riesce però ad essere altrettanto incisivo, perdendosi infine tra le spire di una forma splendida ma cristallizzata, tra le pieghe di tematiche sociali fin troppo calde ed attuali difficili da raccontare, per via della loro complessità, attraverso il linguaggio audiovisivo.