Un universo urbano fatto di edifici fatiscenti, poliziotti corrotti e criminalità incontra creature leggendarie come orchi, fate ed elfi: questo è il mondo rappresento in Bright, prima produzione ad altissimo budget targata Netflix, diretta dal regista di Suicide Squad, David Ayer e interpretata dal divo americano Will Smith.
Unendo personaggi desunti dal fantasy ad ambientazioni tipiche del thriller metropolitano, lo sci-fi distribuito dalla piattaforma di streaming più famosa al mondo catapulta lo spettatore in una spettrale Los Angeles, vicina alla distropia di Blade Runner e del suo sequel. Sebbene non brilli di innovazione, l’ambientazione cittadina appare fin dal primo sguardo l’aspetto più interessante.
Giocata su due differenti livelli stilistici, la città degli angeli è infatti delineata con riuscita coesione, capace di dimostrare una forte firma autoriale del regista. In primis, le poche sequenze en plein air dipingono un paesaggio urbano soleggiato, intrinsecamente decadente ma vicino all’American dream della Sunset Boulevard da cartolina.
Analogamente, le scene notturne intrecciano l’estetica del già citato cult di Ridley Scott con le soffocanti scelte luministiche di Nicolas Winding Refn e con i ritratti metropolitani di Antoine Fuqua e Paul Haggis. Tra i brevi pomeriggi e le lunghe notti di Los Angeles, si muovono dunque i due protagonisti: Daryl Ward (Will Smith), veterano della polizia prossimo alla pensione, e Nick Jacoby (Joel Edgerton), suo collega e primo orco ad entrare a far parte delle forze dell’ordine.
I due, dopo essersi recati in una zona malfamata per calmare dei tafferugli, si trovano invischiati in un mistero dai risvolti sovrannaturali: giunti in una casa piena di cadaveri, i poliziotti trovano infatti l’elfa Tikka (Lucy Fry) la quale, dopo essere sopravvissuta ad una strage, nasconde una rarissima bacchetta magica, con l’intento di sottrarla alla crudele Leilah (Noomi Rapace).
Le dinamiche realistiche del thriller si intrecciano pertanto con sfaccettature fantasy, che puntellano e si espandono nel corso dell’intera narrazione. Nonostante la buona commistione di elementi antitetici, la sceneggiatura appare tuttavia farraginosa e prevedibile, non esente in certi frangenti a momenti di caos o a passaggi di triste banalità.
Molte sotto-trame parallele – come ad esempio quella famigliare di Ward o quella del passato di Jacoby – vengono spesso abbandonate o risolte con superficialità. Anche il confronto tra i due personaggi maschili non appare mai veramente credibile: in tal senso, i due attori protagonisti non si dimostrano davvero all’altezza del ruolo, poiché non riescono a creare una vera affinità da strana coppia.
Tentando di realizzare un possibile cult a lungo termine, Bright è la dimostrazione che anche Netflix può vacillare: nonostante un’interessante (seppur non innovativa) messa in scena, il lungometraggio di David Ayer pecca dunque nella narrazione e nella sceneggiatura, non riuscendo a convincere pienamente.