L’arrivo di soppiatto del Covid ha spinto ognuno di noi a confrontarsi con un fantasma che si è cercato di nascondere ad hoc per molto tempo: quello della solitudine. Uno spettro del quale si tende spesso a negare perfino l’esistenza, perché scomodo, ingombrante e pronto a metterci di fronte ad una delle nostre paure più ataviche e radicate, ovvero quella di restare soli. Come reagire, però, davanti a questa oscura sensazione?
David Earl, comico britannico già apprezzato nelle varie stagioni della serie After Life, ci ha provato scrivendo e interpretando Brian e Charles, una commedia dolcissima e intima nella quale un inventore gallese di mezz’età – Brian – che vive isolato nella brughiera e ha difficoltà a stringere dei legami con il prossimo, trova una molla inaspettata per rispondere al bisogno di compagnia: si costruisce un robot casalingo, con pezzi di scarto (tipo una lavatrice). Il risultato è Charles Petrescu (dietro il quale si cela l’attore Chris Hayward, con la complicità del produttore Rupert Majendie per la distorsione vocale), frutto del genio tecnologico del suo creatore e di qualche errore tecnico che lo ha reso speciale, molto più di una semplice intelligenza artificiale con il corpo di una lavatrice.
Il film, basato sull’omonimo cortometraggio del 2017 e prima ancora sullo spettacolo teatrale ideato dai due attori protagonisti Earl e Hayward, che hanno poi firmato il soggetto e la sceneggiatura, sarà disponibile nelle sale a partire dal 31 agosto dopo essere stato presentato durante l’ultima edizione del Giffoni Film Festival. Con la sua atmosfera così intima, raccolta e sospesa in una sorta di “realismo magico” tutto britannico, Brian e Charles cerca di rispondere alle annose – ed eterne – domande che l’uomo si pone (i misteri della solitudine, dell’amore; la complessità delle relazioni umane) attraverso l’arma dirompente dello humor tipicamente britannico, così sospeso, ironico e irresistibile. La strana coppia protagonista del film è il principio dell’azione mostrata dalle immagini che scorrono sullo schermo d’argento: sono il cuore pulsante, la scintilla vitale che in realtà permette ad un’intera comunità di riscattarsi, ritrovando proprio nella collettività una dimensione affettiva imprescindibile.
Nonostante delle premesse quasi sci-fi nella loro natura sopra le righe, grazie alla sua strepitosa capacità di scrittura Brian e Charles si permette subito il lusso di sospendere l’incredulità dello spettatore, aggirando gli ostacoli tecnico-visivi imposti dalla sua stessa natura di film low budget e indie. Niente robot in CGI, computer grafica di alcun tipo o effetti speciali vari (ed eventuali): sotto il travestimento di Charles, nel suo corpo da lavatrice, pulsa il cuore umano dello stesso Chris Hayward, che rende umano ciò che umano non è mai stato, né su carta né tantomeno nell’immaginario collettivo. Charles, con il suo senso dell’umorismo stralunato, è la quintessenza delle riflessioni di Asimov e Philip K. Dick sulla robotica e gli androidi: possono, degli esseri sintetici, sentire le emozioni? La risposta, per la coppia artistica formata da Earl e Hayward, è decisamente sì, perché Brian e Charles è un’allegoria delle nostre paure superate proprio grazie alla fragilità tutta umana, l’unica capace di inventarsi un amico là dove c’è solo il silenzio.
Ma la commedia è anche una metafora, ben più complessa, delle difficoltà della crescita e del “coltivare”, giorno per giorno, un amore incondizionato e disinteressato. Sembra di vedere, a tratti, un coming of age con protagonista un robot che acquisisce una consapevolezza tale da spingerlo a voler vedere il mondo, valicando i confini limitati del proprio orizzonte. Un figlio che diventa adolescente, e un padre – alle prese con questi cambiamenti – che capisce quanto sia importante amare e lasciar andare, dopo aver consegnato alla sua creatura gli strumenti per poter comprendere il mondo.
Brian e Charles è una fiaba moderna per giovani adulti dal cuore caldo, pronta a intrattenere con intelligenza e ironia (tutta britannica) il pubblico provando a fornire delle soluzioni, più che delle risposte, alle domande esistenziali che da sempre attanagliano la natura umana, ricordandoci come anche questa sia una delle funzioni fondamentali ricoperte dalla Settima Arte, fin dalla sua nascita nel 1895.