Il prossimo 29 novembre – tra un mese esatto – Bohemian Rhapsody, l’attesissimo biopic dedicato alla storica rock band dei Queen e alla vita del suo carismatico leader Freddie Mercury, farà ufficialmente il suo debutto nelle sale cinematografiche italiane.
Il film ha avuto una produzione abbastanza travagliata, dal momento che il regista Bryan Singer (la saga di X-Men) è stato licenziato dalla 20th Century Fox a poche settimane dalla fine delle riprese e sostituito in corsa da Dexter Fletcher, regista al quale era già stato affidato il progetto nel lontano 2013, prima dell’effettivo coinvolgimento di Singer.
Bohemian Rhapsody – titolo ispirato ad uno dei brani simbolo non solo della carriera dei Queen, ma anche della sfaccettata personalità (vocale e non) del suo frontman – racconta in maniera cronologica i primi quindici anni di attività del celebre gruppo rock, dalla nascita della formazione nel 1970 fino allo storico concerto Live Aid del 1985.
Anthony McCarten, sceneggiatore di pellicole quali La teoria del tutto e L’ora più buia, si limita a raccontare pedissequamente le tappe fondamentali della storia dei Queen e di Freddie Mercury, affidandosi ad una stantia e per nulla accattivante successione temporale (non priva di imperfezioni), che nulla aggiunge e nulla toglie ad uno dei percorsi artistici più folgoranti della storia della musica.
Bohemian Rhapsody non approfondisce nessun argomento, né in merito alla storia tanto affascinante quanto complessa e stratificata dei Queen – fatta di incredibili successi, di innumerevoli dissapori, di alti e bassi – né tantomeno in merito all’iconica figura di Freddie Mercury, esuberante e magnetico fondatore e leader della band, che lo script tratteggia attraverso una serie di fragilità e debolezze solo accennate e mai scandagliate (dalla solitudine dell’uomo dietro l’artista si passa in maniera fin troppo repentina e superficiale a tematiche quali l’omosessualità e l’AIDS, che ancora una volta restano sullo sfondo, senza mai diventare parte integrante o cuore pulsante della narrazione).
Dal canto suo, Bryan Singer – accreditato come unico regista – costruisce un prodotto dal gusto estremamente pop, visivamente stucchevole a tratti, per nulla funzionale a richiamare sullo schermo la vera anima glam-rock della band britannica. Le sequenze musicali risultano ben orchestrate e tutto sommato godibili (soprattutto la performance al Live Aid), ma non bastano a restituire al pubblico la vera essenza dei Queen, della loro musica e della loro colorata, vistosa e trascinante energia.
Il lavoro più encomiabile è sicuramente quello svolto dall’intero cast: meriterebbe un elogio a parte la straordinaria interpretazione di Gwilym Lee nei panni di Brian May (in alcuni passaggi del film la somiglianza è davvero impressionante), ma la verità è che a rubare la scena è Rami Malek nei panni di Mercury: la star di Mr. Robot – seppur limitato da una sceneggiatura che preferisce sorvolare sugli aspetti più trasgressivi e promiscui della vita del performer, indissolubilmente legati al suo status di icona gay – è capace di regalare un’interpretazione estremamente convincente, ai limiti del manierismo.
Bohemian Rhapsody è la classica operazione commerciale che preferisce non rischiare per inseguire il confortante e tradizionale didascalismo della maggior parte dei racconti biografici. Un film che forse accontenterà il grande pubblico – quello senza troppe pretese, semplicemente incuriosito dall’arrivo al cinema di una grande storia senza tempo -, ma che quasi certamente farà storcere il naso non solo agli amanti del celeberrimo gruppo rock, ma anche a tutti coloro che speravano di non vedere il mito di Mercury soccombere alle logiche del biopic da manuale.