Parlare delle vite degli altri, soprattutto se famose e patrimonio di un immaginario collettivo, può rivelarsi una sfida insidiosa: presuppone una visione alla base, un determinato taglio e uno stile personale per raccontare gli episodi salienti che hanno trasformato qualcuno in un’icona, un simbolo, magari per il mondo intero. Taluni maestri della settima arte scelgono la via della narrazione apocrifa, discostandosi dalla realtà posticcia – da ricreare a tavolino – per avvicinarsi invece all’essenza intrinseca della fenomenologia trattata (come non pensare, ad esempio, al Danny Boyle di Steve Jobs?).
Altri, invece, contano di evocare fin nei minimi dettagli suggestioni e atmosfere che hanno contribuito alla nascita di un mito, riproducendo intere scene iconiche sullo schermo (vi dice niente il celebre concerto di Wembley dei Queen, in occasione del Live Aid del 1985, avvistato nel film Bohemian Rhapsody?). Due stili, due vie e innumerevoli esistenze (più o meno) famose da declinare in chiave pop grazie alla settima arte; moderne serigrafie di Warhol che rendono riproducibili quasi all’infinito – e personalizzabili come brand – volti e storie straordinarie di musica, cinema, teatro, arte, realtà.
Prima di veder tornare in vita Amy Winehouse nel prossimo biopic Back to Black, o di ammirare Timothée Chalamet (presto nelle sale con il prossimo capitolo di Dune) nei panni di Bob Dylan, ma anche i Beatles al gran completo che raccontano la loro storia in ben quattro film, tocca ad un simbolo come Bob Marley tornare dall’aldilà per cantare, ancora una volta, il proprio messaggio di pace e amore. E lo farà dal 22 febbraio in tutte le sale attraverso Bob Marley: One Love, film biografico diretto da Reinaldo Marcus Green con protagonisti, tra gli altri, Kingsley Ben-Adir (One Night in Miami) nei panni del leggendario cantautore giamaicano, Lashana Lynch e James Norton, mentre tra i produttori figura un ispirato Brad Pitt insieme alla famiglia Marley. Il biopic celebra la vita e la musica di un’icona che, ancora oggi, è continua fonte di ispirazione per intere generazioni grazie al messaggio di amore e unità propagato attraverso le sue immortali canzoni, veri e propri inni rivoluzionari.
Mediare tra le suggestioni sonore, visive o concettuali
Ma nello specifico, il racconto per immagini di Reinaldo Marcus Green (già regista di un’altra straordinaria vicenda di vita e sport, King Richard) sceglie di partire da un segmento fondamentale della vicenda del cantante giamaicano: il terribile attentato che subì nella sua casa di Hope Road a Kingston, nel 1976. La Giamaica, in quell’annus horribilis, era una polveriera pronta ad esplodere, una terra dilaniata da faide interne pronte a trascinare l’isola sull’orlo di una cruenta guerra civile che si consumava tra le strade e nei ghetti. I due politici che si contendevano il governo locale, Edward Seaga e Michael Manley, erano appoggiati rispettivamente dagli USA e dall’URSS, che ancora si contendevano il mondo nell’ottica della costante Guerra Fredda tra potenze nucleari.
In mezzo, c’era Bob Marley, simbolo della Giamaica che con la sua musica inneggiava alla pace, all’amore universale e alla dottrina rastafariana, con il messaggio di Jah. Quella notte, degli uomini si introdussero in casa di Marley con l’intento di ucciderlo, per evitare che il musicista partecipasse – insieme ai suoi The Wailers – al concerto gratuito Smile Jamaica: due dei suoi fedelissimi furono feriti in modo grave e sua moglie, Rita, venne colpita alla testa senza riportare gravi lesioni, in un vero e proprio miracolo. Lui stesso, Bob, fu forse risparmiato da una mano invisibile cavandosela “solo” con una ferita al braccio e una al petto, che mostrerà due giorni dopo sul palco di quel “famoso” concerto, simboli delle conseguenze della violenza, novello martire della pace e dell’amore universale. Quindi Bob Marley, l’uomo per molti benedetto da Jah stesso, il messaggero del rastafarianesimo fu “profanato”, scatenando però in tal modo una reazione a catena che cambiò le sorti dell’intera storia politica – e sociale – della Giamaica.
Questo episodio di cronaca non solo è alla base di un libro uscito, recentemente, nelle librerie (“One Love – Bob Marley”, scritto da Federico Traversa), ma è la premessa narrativa necessaria dalla quale si dipana l’intera vicenda umana – e musicale – del film di Green, perché la scelta del regista non è stata quella di raccontare l’uomo dietro il mito facendo riscoprire al pubblico dettagli misconosciuti sulla sua esistenza, né di costruire una narrazione patinata e celebrativa dell’icona e della star proiettata nell’immaginario popolare. Green ha unito tutti e due gli elementi per mostrare, attraverso musica e immagini, il messaggero, il portatore sano di un contenuto universale tuttora valido, che dovremmo sempre ascoltare e tenere ben presente. “Se cane e gatto possono stare insieme, che problema c’è ad amarsi uno con l’altro?” cantava Marley, consapevole del messaggio di pace che voleva veicolare attraverso le sue parole, della profondità spirituale dei suoi testi che inneggiavano alla Bibbia e alla dottrina rastafariana, con i riferimenti a Selassié I, Jah e a tutto un mondo spirituale sconosciuto al di fuori dell’isola, e poco accettato perfino sul suolo giamaicano.
Il merito di Bob Marley: One Love sta nella capacità di mediare tra le suggestioni, siano esse sonore, visive o concettuali: ci sono le ricostruzioni dettagliate delle performance storiche e dei concerti, ma tutto è funzionale al racconto – attraverso le immagini – di una storia finalizzata al proprio obiettivo ultimo, che è lanciare un monito di pace in un mondo sempre più in guerra. Così Marley si trasforma, ancora una volta, in un simbolo potente, nel megafono che amplifica la voce degli uomini in cerca di conforto e pace, il cantore degli ultimi e di un mondo alternativo che ripudia la guerra e il conflitto.
Ricostruire un’icona umanizzandola
Le canzoni non sono un semplice tappeto sonoro ma una catena di inni che sottolineano i momenti chiave: lo spettatore assiste alla loro genesi spiando dal buco della serratura della storia, vede nascere l’album Exodus davanti allo scetticismo dell’etichetta discografica e assiste alla scintilla creativa dietro l’idea innovativa di un tour nel cuore dell’Africa, dove nessuno aveva mai osato prima. Bob Marley: One Love non è solo la celebrazione audiovisiva di un mito, né una mera opera di intrattenimento: è il tentativo di ricostruire un’icona umanizzandola, svelando le sue fragilità, muovendosi agilmente tra passato e presente attraverso visioni e libere associazioni di immagini, fondendo insieme il linguaggio dell’arte del sogno con il misticismo più profondo.
Perché un’aura sacrale, misterica e religiosa aleggia sull’intera opera, permettendo ad un pubblico ignaro di avventurarsi nei corridoi onirici e mistici del rastafarianesimo, approfondendo un ambito che ha permeato la visione di Marley dell’arte, della propria musica e del mondo che lo circondava. Profondità e misticismo, musica e creazione, immagini e suoni si fondono insieme fino a creare, sullo schermo, l’onda affascinante di un flusso emotivo che travolge lo spettatore scuotendone la coscienza, risvegliando inconsciamente ritmi ancestrali e battiti lontani che inducono alla riflessione, alla meditazione più intima sul ruolo dell’artista nel panorama culturale, sulla figura di quest’ultimo come medium e messaggio allo stesso tempo, veicolo e contenuto per mostrare agli altri, attraverso la propria opera, una visione alternativa del mondo, slegata da compromessi politici e vincoli terreni.
In Bob Marley: One Love la musica permea lo storytelling fino a definirlo, a determinarne il ritmo con la perfezione di un metronomo che scandisce eventi che appartengono ad uno sfera intima, umana e privata, complice la musicalità innata di un accento – quello giamaicano – che trasforma ogni parola nel verso di una canzone, rendendo la visione del film in lingua originale un’esperienza imperdibile. Così, ogni episodio che si avvicenda sullo schermo è figlio legittimo di una storia personale pronta a trasformarsi in una parabola universale, perché ogni scelta compiuta dal cantautore giamaicano, inevitabilmente, ha influenzato gli eventi socio-politici dell’isola caraibica fino a cambiarli in maniera definitiva.
Un impatto talmente radicale che ha segnato, però, anche uno spartiacque culturale, come hanno dimostrato la musica reggae e i ritmi di quei luoghi nel fitto tessuto musicale britannico, tanto da intrecciare destini e suggestioni in modo inevitabile: si deve infatti alla cover di I Shot the Sheriff eseguita da Eric Clapton l’esplosione della “reggae-mania” nell’isola di Sua Maestà, senza contare le altre innumerevoli variazioni eseguite da Slowhand che hanno consacrato, soprattutto in occidente, Bob Marley come un’icona assoluta e un baluardo dei diritti fondamentali, incluso quello più importante e fragile, da difendere ad ogni costo: l’amore.