Uno dei temi cardine della settima arte è legato, di sicuro, al ruolo dello sguardo: occhi che osservano, vengono scrutati, sbirciano dal buco della serratura e seguono in silenzio le azioni dell’oggetto dei loro desideri. La storia del cinema è definita da sguardi e punti di vista che ne hanno plasmato l’immaginario, fino a definirne estetica e formati, trasformando lo spettatore in un voyeur privilegiato posto in una condizione ideale, testimone silenzioso, oggetto e – allo stesso tempo – soggetto delle occhiate indiscrete che rimbalzano dal buio della sala allo schermo d’argento.
Questa lezione attraversa febbrilmente il nuovo film di Alessio Liguori (Shortcut), intitolato Black Bits e pronto ad approdare nelle sale dal 3 agosto: una co-produzione italo-polacca (in collaborazione con Minerva Pictures, Simona Ferri, Agresywna Banda e distribuito nelle sale cinematografiche da Altre Storie) per provare a portare, sul grande schermo, un prodotto d’intrattenimento che guarda proprio alla sala e al pubblico, in attesa di brividi estivi che possano alimentare la suspense e la tensione, vista la curiosa commistione di generi portata in scena da Liguori.
Raggirare e derubare la Black Bits, una società attiva nel dark web, sembrava un’impresa impossibile che Dora e Beth hanno però portato a termine; adesso sono in possesso di due neurochip di ultima generazione dall’inestimabile valore e si nascondono in una futuristica ‘Safe House’ lontana dal resto del mondo. Tuttavia, la loro meritata tranquillità viene stravolta da strani eventi e da una presenza umana inaspettata che turba la quiete nella quale sono immerse: Hank, un uomo all’apparenza taciturno che non rientra affatto nei loro piani. Chi è veramente? E che cosa vuole da loro? Le due ragazze iniziano così a guardarsi alle spalle e a prepararsi al peggio, perché la realtà che le circonda è più pericolosa di quanto immaginano e niente è davvero come sembra…
Black Bits è un film dalle molte facce: esattamente come un dado lanciato sul tavolo da gioco, mostra tutti i suoi sei lati nel corso della narrazione, rendendo indefinibile qualunque pronostico riguardo alla piega che assumeranno gli eventi con il dipanarsi della storia. In apparenza, lo spettatore è di fronte ad un action thriller con sfumature sci-fi e da heist movie: si parla di rapine, di dark web e neurochip rubati, confermando come la sceneggiatura sia ben ancorata alla cronaca, alle derive della modernità e del digitale che avanza, definendo le nostre vite perfino nel quotidiano.
La metafora socio-digitale racconta i sentimenti umani
Vedere già due donne protagoniste rappresenta un’infrazione dei rigidi codici di genere, rompendo uno schema fisso e consolidato ormai ab illo tempore: una scelta non casuale, visto che il racconto di un rapporto di coppia permette di approfondire la psicologia delle due protagoniste, allontanandosi dalla bidimensionalità dei personaggi (spesso solo funzionali all’azione) e avvicinandosi ad una verosimiglianza sempre più marcata con l’esistenza, usando “il grimaldello” della metafora socio-digitale (e tecnologica) per raccontare altro, e nello specifico la complessa sfera dei sentimenti umani.
Come un film coevo – l’Hypnotic di Robert Rodriguez, uscito nelle sale il mese scorso – anche Black Bits fonda gran parte della propria drammaturgia su un tema portante: non tutto è come sembra. Qual è la realtà? E dove si nasconde la verità, tra quali dedali complessi di illusioni, misteri e inganni? Sia Rodriguez che Liguori cercano di fornire delle risposte attraverso i generi e i loro canoni, dimostrando il forte legame con una tradizione cinematografica che affonda le proprie radici nei primi anni 2000; quegli stessi anni che hanno visto nascere l’idea alla base del sopracitato Hypnotic (il 2002, NdR) ed esplodere il torture porn come sottogenere horror con tanto di nuove voci d’autore pronte ad affacciarsi, dagli americani Rodriguez ed Eli Roth, passando per il francese Alexandre Aja e Pascal Laugier.
Liguori cerca di ritornare sui passi di quel cinema, senza sacrificare l’intrattenimento in nome di un messaggio, portavoce di un senso del ritmo e della messinscena che guardano agli inizi del nuovo millennio, ma anche alla lezione della New Hollywood dei generi, con gli sguardi misteriosi de Le colline hanno gli occhi di Wes Craven ad aleggiare, ancora, su Black Bits. Eppure questo messaggio, che dovrebbe essere pronto ad echeggiare tra le pieghe di una storia a tinte action, tutta adrenalina e inseguimenti, sembra perdere progressivamente la propria focalizzazione, inficiata da una sceneggiatura lontana da qualunque forma di didascalia ma che risente di omissis e lacune, frammenti che sembrano mancare all’appello di un puzzle più grande e complesso, fino a delineare i contorni di una storia rapsodica.
Se è ben chiaro il punto di vista di chi guarda, forse non lo è altrettanto quello di chi racconta, incarnazione di un point of view narrativo onnisciente che non riesce, però, a condurre lo spettatore fin nel cuore della propria storia al primo colpo, finendo per lasciarlo con troppi dubbi e poche certezze. Un rischio, quest’ultimo, molto coraggioso da correre soprattutto oggi, in un’epoca veloce in cui la soglia dell’attenzione degli spettatori è sempre più bassa e difficile da catturare, spingendosi spontaneamente incontro ad una seconda (o, magari, anche terza) visione. Per fortuna, rimane sempre la macchina cinema, con le sue illusioni strategiche, ad alimentare il grande gioco di prestigio dell’intrattenimento audiovisivo.
- LEGGI ANCHE – Black Bits: videointervista al regista Alessio Liguori